Home Page - Contatti - La libreriaLink - Cerca nel sito - Pubblicità nel sito - Sostenitori

- Pagina energia

Cellulari a rischio cancro?
Dottor Ernesto Burgio, Coordinatore Comitato scientifico ISDE Italia (Medici per l’ambiente)
http://www.nograziepagoio.it/cellulari%20e%20rischio%20cancro_Ernesto%20Burgio.pdf

La notizia ha fatto in poche ore il giro del mondo. L’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro ha inserito i cellulari e in generale i campi elettromagnetici a radiofrequenza (wireless) nel "Gruppo 2B" che indica un possibile rischio cancerogeno sugli esseri umani. I telefoni cellulari e gli altri apparati wireless potrebbero essere, insomma, un fattore importante del notevole incremento di tumori cerebrali che si è verificato, o meglio che si sta verificando negli ultimi anni in tutto il mondo. E a dirlo non sono, questa volta, singoli scienziati (alcuni ricercatori di livello internazionale lo sostengono da anni) ma appunto la IARC, cioè la principale agenzia internazionale di ricerca sul cancro, legata all'Organizzazione Mondiale della Sanità. O meglio 31 scienziati di 14 paesi riuniti dalla IARC per una settimana, per una revisione accurata della letteratura scientifica disponibili fino ad oggi sul tema. Alla fine di questa full immersion il chairman del workshop targato IARC, Jonathan Samet, della University of Southern California, ha dichiarato che "le prove che si vanno accumulando siano ormai sufficienti a motivare l’inclusione delle radiofrequenze elettromagnetiche tra gli agenti classificati come 2B, cioè appunto come possibili cancerogeni”.

Si tratta di una notizia destinata a suscitare accese discussioni e polemiche. Di una notizia attesa e auspicata da molti, temuta da altri. Come tutte le notizie che riguardano i rischi per la salute nostra e dei nostri figli, legati ad un inquinamento ambientale sempre più diffuso.. e sempre più invisibile. O per meglio dire: ad una trasformazione sempre più rapida e globale della composizione chimico-fisica dell’ecosfera.
Cioè dell’aria che respiriamo e in cui ci muoviamo; dell’acqua che beviamo; delle catene alimentari; degli stessi ecosistemi microbici (in primis di quelli interni al nostro organismo). E’ appunto a questa trasformazione, sia detto per inciso, che si dovrebbe fare riferimento quando si parla di “inquinamento”.

Perché al di là della, non sempre agevole, dimostrazione di un nesso casuale tra un singolo agente chimico, fisico o biologico messo in campo dall’uomo (cioè non frutto di un processo di lenta co-evoluzione molecolare durato miliardi di anni) e singole patologie (in particolare tumori) che ne potrebbero essere l’effetto, il timore di molti ricercatori e scienziati è che questa trasformazione così repentina possa interferire con i processi biochimici delicati che permettono e regolano la vita, destabilizzando il nostro DNA.

Per quanto concerne in particolare il cosiddetto inquinamento elettromagnetico, messo in drammatico rilievo da alcuni ricercatori e caparbiamente negato da altri, dovrebbe essere sufficiente ricordare come fino agli anni ’30 del secolo scorso la parte dello spettro delle onde radio di frequenze superiori ai 30 MHz fosse praticamente vuota; come oggi tale spazio sia estremamente sfruttato e diviso in bande di frequenza che vanno dalle molto basse (VLF) alle estremamente alte (fino a 300 GHz); come queste classificazioni siano fatte sulla base dell'impiego in certi settori piuttosto che in altri e non certo dei rischi per la salute umana.

La letteratura scientifica su questi temi è, inevitabilmente, recente e complessa: se gli studi che dimostrano il probabile nesso tra l'esposizione prolungata a campi magnetici di bassa intensità e bassa frequenza (elettrodotti) e rischio di leucemie, linfomi e tumori cerebrali, in particolare nei bambini, è vecchia, si fa per dire, di alcuni decenni, solo oggi gli studi sugli effetti per la salute umana delle frequenze più alte e in particolare dell’esposizione ai cellulari sono in grado di fornire risultati utili e attendibili. E questo per il semplice fatto che il rischio è legato essenzialmente alla durata dell’esposizione.
La classificazione di "possibili cancerogeni" è stato dato in relazione all’incremento di rischio per due particolari tipi di tumore cerebrale: gliomi e neurinomi acustico. Al di là delle opinioni e delle chiacchiere più o meno fondate, basterebbe ricordare che la stessa IARC nelle sue definizioni conclude in questi termini: un agente può essere classificato come “possibile cancerogeno” anche in assenza di dati di carcinogenicità certa, sulla base di una forte evidenza di dati pertinenti e di meccanismi patogenetici plausibili.

E molti dei ricercatori che ancora negano la plausibilità biologica dei rischi cancerogeni connessi alle cosiddette piccole dosi di radiazioni non ionizzanti (parte dei raggi ultravioletti, microonde, radiofrequenze, raggi infrarossi e raggi laser) e persino di quelle ionizzanti (quelle essenzialmente legate a decadimento radioattivo o a fissione nucleare) mostrano di non conoscere la recente letteratura scientifica che da almeno un decennio ha dimostrato come il maggior pericolo per miliardi di esseri umani derivi proprio dalla esposizione quotidiana a quantità minime, ma sempre più significative, di radiazioni ionizzanti e non ionizzanti e di molecole xeno-biotiche che hanno, in ultima analisi lo stesso “bersaglio”: il DNA e le altre biomolecole complesse. Queste piccole quantità di informazione alterata e di energia contribuirebbero in pratica a destabilizzare progressivamente l’epigenoma, per così dire il software del DNA e, nel medio lungo termine lo stesso DNA. E’ stato ad esempio dimostrato da anni che l’esposizione dei nostri tessuti a radiazioni magnetiche nelle frequenze tipiche dei cellulari interferiscono con l’espressione del DNA, inducono le nostre cellule a produrre proteine dello stress, addirittura possono alterare l’espressione di geni

che ci difendono dal cancro (cosiddetti geni oncosoppressori). Eppure incredibilmente molti esperti continuano a sostenere che gli effetti dei cellulari sui tessuti sarebbero esclusivamente termici; che non ci sarebbe plausibilità biologica per dimostrare il nesso tra esposizione e cancro; che gli studi epidemiologici sarebbero ancora incerti.

Ecco perché il dibattito sui rischi di un aumento considerevole di tumori cerebrali da esposizione prolungata a cellulari e cordless (sarebbe importante sottolineare come questi ultimi siano almeno altrettanto pericolosi dei cellulari: dato trascurato da molti ricercatori) era in corso da almeno un decennio. Da un lato si citavano gli studi epidemiologici importanti e certamente indipendenti del prof. Hardell del Dipartimento di Oncologia dell’Università svedese di Orebro, che ha documentato un incremento rilevante di patologie neoplastiche in soggetti lungamente esposti e chiesto l’immediata applicazione del Principio di Precauzione, in specie nei confronti dei bambini, che rischiano di essere esposti per decenni.. Dall’altro ci si trincerava dietro alle conclusioni, tutto sommato rassicuranti, di alcuni grandi programmi di ricerca come il Progetto Interphone, che ha coinvolto ricercatori di 13 Paesi, ma criticato da numerosi studiosi (tra i primi in Italia il prof Levis, già ordinario di mutagenesi presso l’Università di Padova e membro autorevole del Comitato Scientifico ISDE Italia) perché inserisce (incredibilmente) tra gli “esposti” soggetti che usano il cellulare “almeno una volta alla settimana per almeno 6 mesi” (il che vuol dire quasi mai!); perché meno del 5% dei soggetti esaminati ha maturato 10 anni di latenza o di uso continuato dei cellulari (il che significa che più del 95% ha un tempo di esposizione del tutto insufficiente, visto che nella gran parte dei tumori in esame il tempo stimato di latenza è notevolmente superiore); per la mancata identificazione dei tumori omo-laterali, cioè sviluppatisi

sul lato della testa abitualmente usato per telefonare, che è il solo significativamente irradiato durante l’uso dei cellulari; per la mancata inclusione dell’utilizzo di cordless negli studi (Interphone considera, a differenza di Hardell, gli utilizzatori di cordless come non esposti, mentre è documentato che la radiazione emessa dal cordless può superare in intensità quella di un cellulare.. E infine (last but not the least) perché l’intero Progetto Interphone è finanziato per circa un cerco dalle stesse case delle telefonia mobile.

Proprio su quest’ultima critica sembra essersi incentrata la polemica tra studiosi e ricercatori in Italia: alcuni dei ricercatori italiani impegnati nel Progetto Interphone hanno infatti preso le distanze dalle analisi critiche del prof Levis, bollato come portatore di una “cultura del sospetto”, sottolineando che dichiarare inattendibili i risultati dello studio Interphone a causa di distorsioni legate a conflitti di interesse, sarebbe pericoloso (anche perché una quota sempre più significativa dei finanziamenti per la ricerca viene da committenti privati e in particolare da grandi imprese multinazionali). Gli stessi ricercatori sono arrivati al punto di criticare duramente una sentenza della Corte d’Appello di Brescia che ha riconosciuto “il requisito di alta probabilità” tra uso intenso e prolungato di cellulare e incidenza di un tumore ipsilaterale del nervo trigemino, ed ha condannato l’INAIL a corrispondere al ricorrente – invalido all’80% - la rendita per malattia professionale. E criticando lo stesso prof. Levis per il “discutibile supporto da lui fornito alle conclusioni della sentenza…. e per l’enormità delle conseguenze che questa potrebbe avere”. Inutile dire che le critiche hanno spinto il prof. Levis a rispondere per le rime: sottolineando da un lato come i difetti più gravi dello studio Interphone siano (come ho ricordato sopra) ben altri e in grado di distorcere gravemente i dati e di sottovalutare enormemente i rischi; come il conflitto di interesse sia innegabile (e supportato dal dato di fatto che la gran parte degli studi finanziati dalle ditte di telefonia mobile non trovano una correlazione significativa con l’aumento dei tumori), al contrario degli studi indipendenti come quelli di Hardell; come qualsiasi medico o ricercatore responsabile dovrebbe piuttosto sottolineare le possibili (enormi) conseguenze per i nostri figli e nipoti di una possibile sottovalutazione del rischio, piuttosto che evidenziare i rischi finanziari di soggetti inevitabilmente interessati al profitto piuttosto che alla tutela della salute pubblica.

Difficile dire se il verdetto della IARC contribuirà ad attenuare i toni del contenzioso. Difficile anche credere che una dichiarazione, indubbiamente autorevole, ma inevitabilmente e giustamente cauta possa risolvere in tempi brevi il busillis dei dati epidemiologici ancora incerti circa le dimensioni del “possibile incremento”, che tutti dobbiamo augurarci non drammatico (conviene ricordare anche in questa sede come l’aumento generale dei tumori infantili in tutt’Europa e in particolare in Italia rappresnti un problema delicato, dibattuto e preoccupante). Dobbiamo però sottolineare come anche in questo caso il rischio per i bambini sia notevolmente maggiore e certamente sottovalutato: basti pensare che è stato dimostrato che le radiazioni elettromagnetiche emesse da un cellulare, che in un adulto interessano “solo” la parte direttamente esposta del cervello, nel bambino raggiungono addirittura l’emisfero controlaterale. Abbiamo già ricordato come la durata dell’esposizione rappresenti uno dei fattori-chiave nel campo della tossicologia e, soprattutto, della cancerogenesi e come il tempo di “latenza” tra l’esposizione iniziale e il manifestarsi di un tumore sia sempre di anni o decenni (nel caso dei tumori cerebrali si pensa che gli anni di latenza siano non meno di quindici).

Noi adulti siamo esposti in modo significativo appunto da dieci o quindici anni: il fatto che comincino ad accumularsi le prove di un aumento di tumori cerebrali negli adulti esposti per un tempo appena sufficiente a determinare un incremento di rischio è già di per sé motivo di apprensione. E’ dunque necessario ed urgente che le Società internazionali e nazionali di pediatria scendano in campo per evitare che i bambini siano esposti per decenni a dosi sempre maggiori di radiazioni ionizzanti e di altri inquinanti e che i pediatri, trovino il modo per informare i genitori circa l’esistenza di un rischio che non può e non deve essere più sottovalutato e per convincerli del fatto che si possono e devono trovare modi e strumenti meno pericolosi per meglio “controllare” il proprio bambino.

Dottor Ernesto Burgio
Coordinatore Comitato scientifico ISDE Italia (Medici per l’ambiente)

 

 


www.disinformazione.it