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Quattro passi nel bosco (dell'editoria)
di Carlo Bertani

Nun sun i cüi chi mancan, sun ‘e palanche!
Proverbio genovese

Devo confessare che, da qualche tempo a questa parte, ho sempre meno voglia di scrivere. Se n’è accorta anche la mia tastiera che – sottoposta ad un violento sbattimento dopo averla capovolta – ha restituito un pulviscolo minuto, composto da cenere di sigaretta, frammenti di biscotti al burro olandese, minuscoli particolati di cioccolato al latte di bassa qualità e, inaspettatamente, un ago da cucito. Sono rimasto alcuni minuti a meditare, per ricordare quando mai avessi rattoppato calzini all’ombra della tastiera: ho concluso che, l’unica ipotesi possibile, era che il proprietario dell’ago coincidesse con il precedente proprietario della tastiera. Della cui provenienza, ignoro profondamente genesi ed attributi genealogici.

Nei lunghi minuti trascorsi ad indagare sul misterioso ago – misura media, cruna più adatta alla lana, da ricamo più che da rammendo – una serie infinita d’immagini mentali m’ha traversato la memoria, e tutte conducevano ad un solo punto interrogativo: perché, nonostante l’italico sfacelo che ci circonda, ci ostiniamo ad imbrattare fogli di carta con l’inchiostro?
Eh sì, perché non possiamo sottendere che la cloaca italiana – con le mille perversioni del bassissimo impero qual siamo giunti, le fantasmagorie mediatiche alle quali sono sottoposti già i lattanti, fino alla scoperta di una “casta” da parte di coloro che ne fanno oltremodo parte (ossia i giornalisti di regime) – può essere dipinta e raffigurata soltanto con l’italico idioma. Del quale – buon per lui, mal per noi – può infischiarsene e servirsene anche un tizio che fa di nome Cesare Salvi, il quale acchiappa ogni mese i suoi 20.000 euro come nostro “dipendente”, e poi scrive che bisogna “moralizzare” la spesa per la politica. Così, acchiappa anche i diritti d’autore.

Eppure, volente o nolente, ci tocca esprimerci nel medesimo idioma, aderire ad identico stampo.
Sarebbe difficile rendere in altri idiomi espressioni come “Lei non sa chi sono io!”, così com’è difficilissimo da interiorizzare il proverbio tedesco Der Krieg trägt im der Land, und die Wahrheit flieht heraus (Nel Paese entra la guerra e fugge la verità). Se così non fosse, saremmo meno sorpresi dalle mille, sfaccettate verità sull’11 settembre, tanto meno perderemmo tempo a leggere che le cifre comunicate dal Pentagono sulle perdite in Iraq sono stratosfericamente fasulle. Ma la Germania è stata stramazzata da due sconfitte mondiali, mentre l’Italia – da sempre – è il regno incontrastato dei mille “furbetti del quartierino”. Potremmo tradurlo con “little clevers of the small quarter”? Meglio lasciar perdere: non ho mai amato l’idioma degli Angli.

Ogni lingua, dunque, racconta l’anamnesi di un dipinto che è la quintessenza della sua storia: con le tinte e le pennellate tipiche di quel pittore il quale – all’opposto della mia tastiera – ha una precisa genesi e sufficientemente definibili attributi.
La possibilità d’imbrattar carta, e di sperare che la cosa sia oltremodo utile, è quindi confinata dal numero di coloro che riescono ad interpretare quei segni, codificarli in un linguaggio, accoppiarli ad emozioni ed esperienze personali, scorrerli nel gestalt[1] della memoria e goderli finalmente nello schermo della propria mente. Altrimenti, meglio un DVD in qualsiasi lingua: almeno, le immagini sono internazionali.

E qui veniamo al sodo.
Quando, dopo aver aperto Word, iniziamo a battere sui tasti, già sbarriamo la porta della prigione. Nel momento stesso nel quale iniziamo a scrivere, abbiamo sbattuto la porta in faccia a 6 miliardi e 940 milioni d’esseri umani. Tutti i non-italiani: tristissimo doverlo riconoscere, ma è così.
Per fortuna, rimangono quei 60 milioni di (quasi) nostri connazionali, giacché il 5% sono oramai stranieri che vivono in Italia e che, non sempre, riescono a leggere un libro in italiano. Quando, oltretutto, trovano i soldi per comprarlo.
Compensiamo però – oggi siamo di manica larga – quei tre milioni e passa d’extracomunitari con qualche milione d’italiani che vivono all’estero, che ancora riescono a leggere il nostro idioma, e facciamo pari e patta: 60 milioni. Gli altri, come sono messi?

Cinese: 1.200 milioni
Hindi :1.000 milioni
Arabo: 800 milioni
Inglese: 500 milioni
Spagnolo: 400 milioni
Russo: 250 milioni
Tedesco: 100 milioni
Francese: 100 milioni
Italiano: 60 milioni

Le cifre sono indicative e non molto precise, ma assolvono in pieno il loro compito, ossia indicare: per questa ragione non mi dilungo sulle specificità del cinese han o sul caleidoscopio dell’arabo.
Se poniamo attenzione a quei numeri, possiamo osservare che le possibilità – per il nostro pezzo di carta imbrattato d’inchiostro – d’esser letto dipendono principalmente da due fattori: la lingua usata per imbrattarlo e la disponibilità economica dell’acquirente.
Il prezzo, di per sé, non ha soverchia importanza, giacché il costo delle materie prime (carta, inchiostro, ecc) e della stampa non varia moltissimo: certamente, nei paesi meno ricchi, il costo della mano d’opera sarà minore, ma non abbastanza per essere degno d’attenzione. Quando il tuo reddito è di 80 euro il mese, poco importa se un libro ne costa 5 o 10: sempre troppo è[2].

Non introducendo nell’analisi, quindi, paesi molto popolosi ma con scarso reddito – sui quali si potrebbero fare altre considerazioni, ma che esulerebbero dal nostro discorso – rimangono le lingue europee.
In questo caso, lingua non è più sinonimo di nazione, bensì d’area linguistica: l’inglese è letto in Australia così come lo spagnolo nelle Filippine, il russo in molti paesi dell’ex-URSS, il francese nel Quebec, ecc.
Ora, ipotizzando che sia interessato al nostro pezzo di carta (e che possa acquistarlo) lo 0,001% della popolazione, nei rispettivi paesi le vendite sarebbero queste:

Inglese: 5.000
Spagnolo: 4.000
Russo: 2.500
Tedesco: 1.000
Francese: 1.000
Italiano: 600

Per una volta non consideriamo chi sta peggio di noi – greci e slovacchi, olandesi e croati – perché quelle 600 copie vendute in Italia, a fronte delle 5.000 inglesi, raccontano già tutto.
Non esiste un “limite stabilito” per affermare se un libro copre i costi di produzione (dipende da molti fattori), ma – a microfono spento – molti piccoli editori affermano che quel numero sta proprio fra 2.000 e 5.000.
Ebbene, il pieno insuccesso di un libro sul mercato italiano – quelle 600 copie – è un parallelo insuccesso anche nel mercato anglosassone (5.000 copie), con una differenza: l’insuccesso italiano sarà anche economico, quello inglese, al contrario, un piccolo utile lo fornirà.

Se, invece, vogliamo considerare un libro italiano che raggiunge la “sufficienza” con le sue 5.000 copie, corrisponderà a circa 40.000 copie nel mercato anglosassone: 40.000 copie sono una quantità sufficiente, che permette all’imbrattacarte inglese d’affermare “di mestiere, faccio lo scrittore”, mentre l’italiano potrà soltanto dire “faccio anche lo scrittore”. E qui, credetemi, c’è già una grossa differenza.
La differenza è tutta insita nella giornata dell’imbrattacarte inglese, rispetto a quella del collega italiano: il primo potrà meditare sull’argomento del prossimo libro, il secondo sul prossimo lavoro che dovrà svolgere per campare.

Forse non tutti sapranno qual è la ripartizione degli utili di un libro: dal 4% al 10% all’autore, circa il 60% alla distribuzione e circa il 30% all’editore. Tutti, ovviamente, dovranno pagare su quelle cifre tasse e balzelli: come si potrà intuire, non c’è molto da stare allegri.
Un libro che costa 10 euro, con una percentuale per l’autore del 5% e che venda 5.000 copie, fornirà 2.500 euro: tolto il 15% della SIAE e l’IRPEF, rimarranno circa 1.700 euro. Nelle medesime condizioni, lo scrittore inglese guadagnerà (40.000 copie) circa 13.500 euro. Conviene imbrattare muri (ossia fare l’imbianchino) oppure carta (lo scrittore)? Nel mondo anglosassone, scarseggeranno di certo gli imbianchini.

Anche nella nobile arte del giornalismo, il sole non brilla per gli italici scribacchini: a questo pongono rimedio i governi, che devolvono ogni anno che passa – in silenzio, per non turbare le trattative su pensioni e stato sociale – circa un miliardo di euro, adducendo come scusa la necessità di preservare l’italico idioma. Si rammentano ben presto, però, d’assicurarsi piena fedeltà per quegli “spiccioli” devoluti – spesso, ahimé, con troppa sollecitudine – a poverissimi direttori di testate come Libero, L’Unità, Il Foglio e tanti altri. Feltri, Padellaro, Ferrara e compagnia cantante sentitamente ringraziano.
All’estero, nel regno degli Angli, va invece di moda la “fondazione”: splendido strumento al quale puoi devolvere qualche briciola del tuo reddito, quando lo stesso reddito – terrore! Disgrazia incombente! – finirebbe per “sforare” un “tetto” e farti crollare addosso una tegolata di tasse. Così, risparmio sulle tasse ed avrò finanziato un po’ di cultura.

Per questa ragione, i giornalisti anglo-americani possono permettersi di lavorare tranquilli nelle loro discrete case di campagna, lanciando un “allarme guerra Iran” la settimana. Qualcosa devono pur scrivere: basta non prendere “di punta” il mecenate di turno.
I giornalisti italiani? Scivoleranno silenziosi nelle corti dei Feltri, Padellaro, Ferrara & Company, diranno sempre che tutto va bene e che, se piove, potremo sempre affermare che il governo è ladro. Il mugugno è libero.
Di conseguenza – operando un rapido paragone fra i due mondi – saltano agli occhi le scarse possibilità d’occupazione per i lavoratori dell’idioma dantesco.

Un mercato ristretto ed asfittico, però, non è poi così male – riconosciamolo – perché dipende dall’angolo che assumiamo per osservarlo. Se siamo nell’angolo degli imbrattacarte…eh…c’è poco da fare…ma, se siamo nell’angolo di chi degli imbrattacarte ha bisogno, ne saremo molto avvantaggiati.
Quanto costa quello inglese? 100.000 sterline, sir, ha appena venduto 50.000 copie con un libro sull’accoppiamento dei coleotteri in Islanda...e quello italiano? 5.000…ma siamo in stagione di saldi…con 3.000 se lo porta a casa…

Va bene, mi dia una dozzina di questi italiani e me li incarti.
A questo punto, verrebbe da chiedersi: ma, Bertani, non ci sta raccontando un sacco di fregnacce?
Non è forse vero che – nel libero mercato – ogni casa editrice ha interesse a sopraffare l’avversaria, metterla alle corde, per poi acquistarla per un tozzo di pane? In teoria, sì.
Se tutto ciò fosse vero, le grandi case editrici si farebbero in quattro per acchiappare le “migliori penne”, le andrebbero a scovare nei giornaletti di provincia, terrebbero d’occhio il più povero concorso letterario, si darebbero un gran daffare per “soffiare” alla concorrenza un giovane promettente. Non è così? No.

E’ dunque ben strano che, sui portali Web delle grandi case editrici – Zanichelli e Feltrinelli (sic!) tanto per non far nomi, ma la compagnia è vasta – sia ben indicato, a chiare lettere, di non inviare nessun tipo di materiale, né cartaceo né elettronico. La sentenza è pesante: “tanto, verrebbe subito cestinato”.
Da dove provengono, allora, gli scrittori che pubblicano per quelle case?
La gran parte sono autori stranieri, perché i libri si possono tradurre: come avviene il giochetto?
Se una casa anglosassone (o spagnola, ossia di quelle che possono contare su un esteso mercato potenziale) pubblica un libro, grazie al vasto pubblico realizza utili: riflettiamo che, con una sola traduzione inglese/spagnolo o viceversa, s’arriva a circa un miliardo d’individui.

A quel punto rimangono i mercati minori: russo (minore ma non troppo, anche per l’abitudine dei russi a leggere parecchio), tedesco, francese ed italiano. Man mano che si scende nella scala dei potenziali lettori, diventerà più appetibile un testo che ha già avuto successo (ed ha generato utili) rispetto al mercato degli scrittori nazionali.
Un editore straniero – che ha già intascato parecchio con un libro – s’accontenterà di cedere i diritti per l’estero e d’aggiungere quei quattro soldi al mucchio che ha già creato. Basta una traduzione ed una stampa.
Il libro italiano, invece, necessita di una prima lettura, di una fase di editing, d’immagini con relativi diritti, ecc. Quando giungerà alla stampa, avrà accumulato un passivo senz’altro superiore alla semplice traduzione.

L’editore italiano, quindi, si comporta oramai come un semplice salumiere: il prosciutto argentino costa di meno? Mangiate prosciutto argentino.
C’è però una differenza: il prosciutto, una volte digerito, se ne va. Il libro, rimane.
Così, ci troviamo circondati da splendide avventure che nascono in Patagonia e si spostano nel Chaco, oppure delitti commissionati a Detroit e consumati (come insegna la tradizione!) nei migliori castelli inglesi. Da quei libri, verranno tratti splendidi film ed avvincenti sceneggiati televisivi: se il libro è invece di bassa lega, si trita tutto e si confeziona una bella telenovela.

Attenzione: non stiamo affermando che quegli scrittori non valgano o che non sia avvincente ciò che raccontano, bensì che lo fanno partendo da una posizione di favore!
Rimane da spiegare la strana comparsa d’autori italiani nei listini: parrebbero contraddire la tesi in esame, essere la freccia lanciata da un ribelle Robin Hood contro la Nottingham dell’editoria riunita, protetta dalle mura del maniero.
Nella maggior parte dei casi, il giochino è semplice: io sono un cattedratico di Milano, tu di Napoli. Ci conosciamo (magari ci odiamo anche un po’, ma non fa niente, quando si tratta di soldi si passa sopra anche ai reciproci sputtanamenti), e decidiamo che è ora di farlo. Do it! Era il grido dei freaks. Hanno imparato.

Io scrivo per Caio, tu per Sempronio. Scriviamo quasi il medesimo libro, ma nessuno se ne accorgerà: basta un buon “editor”.
Dopo, io metterò in adozione il tuo libro e tu il mio. Quanto fa? Un migliaio di copie? Duemila? Va bene. Si passa quindi alla rete delle biblioteche: vuoi che non mettano in catalogo due libri come i nostri?!? Con i blasoni che abbiamo?!? E fanno altri 2.000. Qualcosa in libreria…qualche copia nelle “fiere del libro”, un po’ su Internet…voilà! Ecco le 5.000 copie.
L’editoria scolastica è poi un secondo abisso, dove le case editrici giocano al rialzo sulla pelle dei poveri genitori: alcune, piccole case editrici hanno provato a scoprire l’Uovo di Colombo, ma le grandi si sono già mangiate sia l’uovo e sia il colombo.

Alcune piccole case hanno proposto semplicemente alle scuole d’acquistare un libro in formato PDF: anche la Moratti ci aveva pensato ma, evidentemente, qualche buon “consigliere” la consigliò di pensarci e basta. Cosa se ne farebbe una scuola della proprietà intellettuale di un libro in PDF?
Ogni singolo insegnante potrebbe indicare quali parti del testo stampare (secondo la classe, la didattica, ecc), e le copie potrebbero “passare” da un allievo al fratello minore. Per la scuola, quali vantaggi ci sarebbero? Ci sarebbe l’aggravio di maggiori investimenti per la stampa dei libri ma, lo stesso testo, potrebbe essere replicato in migliaia di copie!

I genitori si vedrebbero fare questa proposta: da noi, l’iscrizione non costa 100 euro, bensì 200. Ma, libri compresi. Un vero sardo, direbbe: capito mi hai?
Qualcosa del genere viene già attuato in Francia ed in Germania: là, i libri scolastici li fornisce la scuola stessa. Al termine dell’anno scolastico, i libri ritornano in magazzino e soltanto se sono stati imbrattati si è costretti all’acquisto.
L’obiezione più comune a tale metodo è che i testi non sono “aggiornati”: pietoso inganno. Se parliamo di un testo scientifico, qualcosa di vero potremmo – con gran pignoleria – trovarlo, ma le “frontiere” della Biologia o della Fisica riguardano più l’Università che la Secondaria Superiore. Per le “Medie”, poi…

Sull’altro versante, riflettiamo “sull’urgenza” d’adottare un nuovo testo di Latino o di Matematica, per “ovvi” motivi d’aggiornamento. In realtà, l’editoria scolastica è un gentile regalo che i Governi fanno alle case editrici per avere apparati d’informazione (le stesse case pubblicano giornali, riviste, ecc) “nei secoli fedeli”. Una sorta di “stipendio fisso” per affrontare il mercato, uno stipendio che viene rapinato dalle tasche dei genitori perché – non dimentichiamo – l’obbligo scolastico è a 18 anni, e quindi per circa 8 anni dovranno assolvere all’obbligo pagando di tasca propria. E per chi non ce la fa?
Per chi non riesce a pagare i libri, c’è la “carità” concessa dalle scuole: per una scuola di 500 allievi – cifre reali, vissute dal sottoscritto in Consiglio d’Istituto – 3 milioni di lire, ossia i libri per 5 allievi. L’1% riceve i libri gratis – e lo Stato ritiene d’aver assolto il suo compito – mentre il 15% delle famiglie italiane vive oramai sotto la soglia di povertà. Nel paese dei Pulcinella, si fa questo ed altro.

Qualora adottassimo il sistema francese, tedesco o il PDF, ualoraQper le grandi case editrici dell’editoria scolastica ci sarebbe soltanto la triste defaillance dell’estinzione, ma si potrebbe organizzare un bel funerale con tanto di benedizioni ed applausi. Dopodichè, dovrebbero provare a fare veramente le case editrici, vale a dire tentare di pubblicare e tradurre per l’estero il meglio della creatività italiana. E – come recita Forrest Gump – non ho altro da aggiungere su questo argomento.
Per quanto riguarda il resto dell’editoria di mercato (ossia gli autori non cattedratici, non nipoti di cardinali, non figli di notabili, di mammasantissima, di contesse, di Cavalieri del Lavoro, di Direttori di testata, di parlamentari, di assessori provinciali, ecc) le nostre fonti ci assicurano che il metodo utilizzato è lo stesso che ha imperversato (e che imperversa, con nuove sigle) in RAI: chi si assume? Un DC, un PCI ed uno bravo. Basta leggere i nomi dei giornalisti televisivi per rendersene conto: ad ogni buon conto, c’è sempre la controprova, ossia in quale partito vanno a finire quando lasciano mamma RAI.

Purtroppo, in un paese con pochi lettori potenziali, i pochi “bravi” riescono a fare ben poco: talvolta riescono anche ad ottenere una traduzione, ma più che una traduzione – a quel punto – la considerano una benedizione.
Anche sulle traduzioni, però, ci sarebbe parecchio da raccontare: vogliamo ricordare che Fenoglio e Vittorini furono i traduttori di Steinbeck? Può esistere un traduttore che non ha mai vissuto – e non per pochi mesi – nel paese dal quale proviene l’autore? Che non conosce storie, genti, luoghi? Che non sia a sua volta uno scrittore? Le cose ben fatte si vedono: il resto…
In definitiva – perché Forrest non s’accontenta di raccontare, ma vuole anche tirare le somme – le case editrici si comportano esattamente come le banche.
Un tempo, la banca era il luogo dove s’incontravano l’offerta e la domanda di denaro. Le case editrici erano, invece, l’incrocio fra la domanda e la richiesta di cultura.

Oggi, la banca non svolge più quel compito – qualsiasi artigiano lo sa benissimo – perché privilegia il “colpo” a sei mesi sul mercato dei derivati finanziari piuttosto che l’investimento, a medio o lungo termine, ma più sicuro, sul gommista all’angolo.
La casa editrice sa che, proponendo quei testi tradotti e tanta paccottiglia (che deve produrre, per soddisfare i suoi mentori politici), riceverà un guadagno certo, veicolato mediante le altre grandi sorelle, ossia la pubblicità televisiva, il gossip, le mille stronzate che raccontano tutti quelli che – divenuti famosi per aver morsicato un cane o per essere finiti in una telenovela rosa/noir/giudiziaria – all’uscita dal carcere non abbracciano più la mamma, ma affermano: «Scriverò un libro».

Non si può nemmeno sperare che il Web mandi all’aria il sistema: potrà essere valido per l’informazione ma, per la narrativa, riflettiamo che non è molto comodo leggere a letto con un portatile sullo stomaco. Oltretutto, s’andrebbe ad incidere sul mercato delle abat-jour.
Altra soluzione sarebbe quella dello scaricamento dei testi a bassissimi costi – un solo euro, inviato con un SMS, scaricato dalla scheda telefonica – con l’invio di una password per lo scaricamento. Considerando un altro euro per la stampa casalinga, leggere sei libri l’anno costerebbe 12 euro. Ci si potrebbe anche stare, ma le grandi case editrici non ci stanno, e metterebbero tanti cavilli giuridici fra le ruote quante sono le stelle in cielo.
Va bene, direte voi – maledetto Bertani, ipocondriaco, pessimista – ma…ma…le librerie, la distribuzione…non fanno nulla?

Questo penoso cronista d’italiche sventure, ebbe la disgraziata scalogna d’assistere, nella libreria di un amico, all’arrivo di un importante rappresentante di grandi case editrici. Blasonate sigle, nomi da capogiro: dalla A alla Z, metteteci i nomi delle case editrici più rinomate.
Sulle prime, il libraio divenne paonazzo, quindi deferente, infine servile. Lo fece accomodare di fronte al computer principale, gli aprì un misterioso programma e, a quel punto, il gran macho venditore sparpagliò al vento la sua canzone.
«Di questo 10, non di più. Quello? No, quello no: piuttosto, prendine 50 di questo…»
«Cinquanta?»
«Sì, cinquanta: fidati: andrà all’Isola dei Penosi e venderà un sacco. E poi, ricordati: lo vuoi il metro cubo, si o no? Lo posso sempre dare a qualcun altro!»

Il libraio chinò il capo «Va beh, questo lo sai…altro?»
Risparmiamo al lettore il seguito della telenovela, assicurandolo che non sta perdendo alcunché: a perdere la pazienza fu il sottoscritto, che accampò una scusa per andarsene.
Rimane l’incubo di quel “metro cubo”, dal quale il lettore sarà incuriosito come dalle vicissitudini di Leni Pfeiffer, nata Gruyten[3]: si materializzò pochi giorni prima del Santo Natale, quando comparve nella vetrina un bancale di legno delle dimensioni approssimative di un metro cubo.

Non possiamo assicurare al lettore che le dimensioni fossero propriamente adeguate al metro di Platino conservato al museo di Sèvres, ma ricordiamo con precisione cosa conteneva l’imballo in plastica trasparente, incappucciato – a mo’ di preservativo culturale – per proteggere centinaia di testi tutti uguali. Dalla sommità dell’immane goldone plastificato, sporgevano e si diramavano decine, centinaia di copie dell’ultimo libro di Bruno Vespa, ossia il condensato delle cazzate contenute in un anno di minchiate televisive.
Non è bello, però, terminare con il solito pianto antico: di gente che scrive – e bene – in Italia ce n’è tanta, e parecchie piccole case editrici provano a stampare libri di qualità, ma la “corazzata” della grande editoria, ben protetta negli arsenali dello Stato, domina il mare.

Ci vorrebbe una spinta liberalizzatrice, ma “liberalizzare” – in Italia – significa esattamente l’opposto: invece d’aprire il mercato a tutti, significa regalare per pochi soldi beni pubblici al Gotha dell’economia. Gli esempi si sprecano: la Società Autostrade , la telefonia, oggi tentano con Italcantieri, ecc.
Governi intelligenti – invece di scialacquare le nostre sostanze nelle tasche dei soliti baroni dell’editoria – farebbero meglio a bandire concorsi per giovani autori e giovani traduttori, per consegnare – anche sul mercato estero – ottime copie, ben scritte e tradotte, del genio italico.
Costerebbe pochi milioni (non miliardi) di euro l’anno, e scardinerebbero questo sistema incartapecorito dall’insipienza di una mefitica tradizione. Ne uscirebbero giovani, bravi autori che alla lunga costringerebbero le grandi case alla scelta: o far finta di niente, e rischiare che altri s’assicurino la “gallina dalle uova d’oro”, oppure gettarsi finalmente nel mercato reale, ossia leggere e pubblicare.

Con un milione di euro, sarebbe possibile immettere ogni anno sul mercato duecento libri in tre lingue (italiano, inglese e spagnolo) con una tiratura digitale di poche centinaia di copie, a disposizione dell’autore. Gli editori italiani farebbero spallucce? Ci penserebbero quelli esteri, fuori della prigione dei confini sin troppo salvaguardati dalla cultura di regime. Perché, non dimentichiamo, un libro vuol dire idee, innovazione, cultura senza controlli politici di sorta.
Questo piccolo intervento creerebbe ricchezza anche per “l’indotto” dell’editoria, consentirebbe alla lingua italiana di mostrare che ancora esiste e – perché no – darebbe felicità a tante persone che potrebbero dare il meglio di sé in quel che meglio sanno fare. Purtroppo, la carenza della proposta è nell’aggettivo usato in apertura: “Governi intelligenti”. Già.

In ogni modo, sono onorato d’aver conosciuto giovani che non hanno mai pubblicato nulla, dalla penna felicissima. Oppure scrittori di opere prime e basta: però grandi, immense come cattedrali.
La cosa più curiosa è che quei testi – spesso vere chicche, che conservo con cura – vengono regalati agli autori in varie occasioni: concorsi letterari, semplici gadget, altro…e spariscono presto dal mercato.
Ricordo un libro – opera prima e forse unica, vincitore di un premio letterario – che mozzava il fiato per l’eleganza della lingua, per la grazia con la quale trattava sentimenti e tragedie.
Parlava in terza persona di Cristo e dei Vangeli apocrifi: dopo averlo letto, riletto e gustato, ricevetti in dono più copie di un noto libro di Dan Brown, che non ho mai aperto. Le rivenderò presto, sulle bancarelle, prima che passi troppo di moda. Magari ci ricaverò una pizza.

Perché, quando si gusta del buon Chianti, anche la miglior Coca Cola fa schifo.

Carlo Bertani articoli@carlobertani.it   www.carlobertani.it   http://carlobertani.blogspot.com/ 
P.S. Per la traduzione dell’incipit, rivolgetevi ad un amico genovese.


[1] Gestalt (letterale: Forma): termine tedesco praticamente intraducibile in italiano, che identifica – approssimativamente – la capacità della nostra mente di creare una visione personale partendo dalla lettura di un testo. Manca – nell’idioma di Dante – una parola per descrivere compiutamente il fenomeno del “sogno ad occhi aperti” generato dalla lettura.
[2] Nelle Fiere del Libro che si tengono al Cairo da alcuni anni, la richiesta è corposa, ma i prezzi sono esorbitanti per lo scarso potere d’acquisto degli egiziani. Il mercato dell’usato supplisce, in parte, a questa carenza.
[3] Heinrich Böll – Foto di gruppo con signora – Mondatori – Milano – 1972

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