- Dopo l'11 settembre

Tristezza per gli USA
Il gigante che perde sangue

Di Maurizio Blondet da "Avvenire" 2 settembre 2003

E' consentito provar dolore per l'America nelle sabbie mobili irachene? Aver tristezza per la facilità con cui il gigante globale perde sangue nel nido di scorpioni in cui ha messo il piede volontariamente? L'opposizione alla guerra, in Europa e in Italia, è stata quasi egemonizzata dall'"anti-americanismo" urlato in piazza. Sia consentito in questo momento far ascoltare la voce sommessa di quanti obbiettavano all'avventura bellica di Rumsfeld per amore degli Stati Uniti. La voce di chi, conoscendo e amando l'America, presagiva il pericolo in cui il Paese rischiava di finire. C'era chi agghiacciava del facilismo con cui Rumsfeld e il suo entourage, da Wolfowitz a Perle, proclamavano che sarebbe stata "una passeggiata", che gli iracheni li avrebbero "accolti come liberatori", che la "democrazia" stava per essere portata dalle armi Usa nell'Islam, come fu già portata al Giappone e alla Germania.
Chi ama l'America sa che un'altra America, inascoltata, obiettava. Parlo per esempio del generale Eric Shinseki, capo degli Stati maggiori riuniti (non un obiettore di coscienza) che aveva avvertito: l'occupazione dell'Iraq richiederà il doppio, il triplo degli uomini che Rumsfeld pensa sufficienti. Rumsfeld l'ha licenziato. Parlo dei tre diplomatici del Dipartimento di Stato, fra loro degli arabisti, che si sono dimessi per non partecipare all'avventura: non in quanto anti-americani, ma da patrioti.
Rumsfeld, reduce da grandi cariche in imprese private, ha appaltato a privati una quantità di servizi logistici, per risparmiare. Risultato: per quattro mesi i soldati in prima linea hanno fatto i conti - incredibile, vero? - con la fame e la sete. Rumsfeld non aveva capito che portare minestra calda o Coca Cola ghiacciata ai soldati in combattimento non è un atto di generosa ristorazione collettiva, ma un compito bellico. Le imprese private che dovevano assicurare i rifornimenti non si sono fatte vedere sul campo di battaglia. Con dolore si sono visti soldati americani costretti a cannibalizzare gli automezzi colpiti per far funzionare quelli ancora buoni.
Non è questa l'America che conosciamo. E infatti da qui è sorto il dubbio che con la nuova classe dirigente sia andata al potere un'America in qualche modo "arretrata" rispetto al livello storico che gli Usa si sono guadagnati nel mondo. Se c'è una cosa che gli americani sapevano fare, è organizzare. Imporre regole funzionali, standard tecnici eccellenti, esigenti norme di sicurezza. E ora in Iraq li scopriamo incapaci di assicurare l'acqua e l'elettricità, di amministrare e gestire le infrastrutture fisiche. Incapaci di ispirare, se non amore, rispetto.
Certo le condizioni in cui si trovano ad agire sono difficilissime. E tuttavia, come non allarmarsi?
Una guerra, giusta o ingiusta, obbliga sempre un Paese a mobilitare le sue risorse migliori anche morali; e rivela senza pietà le sue falle. Ciò che vediamo è la falla che le migliori menti americane vanno denunciando da vent'anni: un Paese de-industrializzato. Padrone di alte tecnologie e dell'alta finanza, ma che importa beni e merci dalla Cina. Fra chi li conosce, qui nella vecchia Europa, c'è chi ha dubitato fin dall'inizio che gli Stati Uniti avessero le risorse per le loro nuove enormi esigenze. E ora non si rallegra di quell'annaspare. Perché nell'eventuale perdita di prestigio di quel Paese, nell'impietoso rivelarsi di certe falle umane e tecniche, teme di veder rispecchiato il declino dell'intero Occidente. Con effetti di cui tutti rischiamo di pagare il conto.


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