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- Emmaus, la città invisibile

Vittime del conflitto tra palestinesi e israeliani

- Palestinesi: 3.112
- Israeliani: 918
- Altre vittime: 63
- Totale vittime: 4.093
- Case palestinesi abbattute dall'esercito: 1.365
- Palestinesi senza casa: 18.500

Numero di vittime dall’inizio della prima Intifada (28 settembre 2000). Dati aggiornati alle 16 del 26 maggio 2004. Tra le vittime palestinesi sono inclusi i kamikaze, mentre non sono conteggiate le persone accusate di collaborazionismo e uccise da altri palestinesi. [ Fonte Afp e Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi ]

Denuncia di Amnesty International
Il 26 maggio 2004 Amnesty International ha pubblicato il suo rapporto annuale. In una sezione dedicata al Medio Oriente, l’organizzazione accusa Israele di commettere «crimini di guerra» contro i palestinesi e definisce «crimini contro l’umanità» gli attentati palestinesi contro i civili israeliani. Amnesty denuncia la disastrosa situazione economica dei Territori, dove i due terzi della popolazione vivono sotto la soglia di povertà e il 50 per cento delle persone è disoccupato. Amnesty sottolinea che nel 2003 è aumentato il numero di pacifisti e giornalisti stranieri uccisi dall’esercito israeliano nelle violenze.  

Risoluzione delle Nazioni Unite contro Israele
Maggio 2004
Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha adottato una risoluzione che denuncia Israele per l’uccisione di 53 palestinesi a Rafah e la demolizione di decine di abitazioni al confine tra Striscia di Gaza e l’Egitto. Per la prima volta Washington non ha opposto il suo veto alla risoluzione.

Condanna del parlamento spagnolo
Maggio 2004
Il parlamento spagnolo ha approvato all’unanimità una dura dichiarazione contro le violenze israeliane nei campi profughi di Rafah. Il testo cita esplicitamente «il massacro di civili palestinesi nei Territori e l’attacco delle truppe israeliane contro una manifestazione».

 

Scene già viste a Rafah
Meron Benvenisti, «Ha’Aretz» Israele
Tratto da "Internazionale" 541, 28 maggio 2004

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Israele distrugge le case palestinesi. E il progetto dei suoi padri fondatori.
Le immagini di Rafah sono difficili da sopportare.
Colonne di profughi che si allontanano dalle loro case con pochi oggetti messi in salvo, bambini che trascinano valigie più grandi di loro, donne vestite di nero che piangono sulle macerie. Per alcuni di noi tutto questo riporta alla memoria scene identiche, come un peso che da mezzo secolo opprime la nostra coscienza: la processione dei profughi di Lod diretta a Ramallah nell’estate del 1948, la colonna degli esuli dei villaggi palestinesi di Yalu, Beit Nuba ed Emmaus rasi al suolo nel giugno del 1967 e i profughi di Gerico che scavalcano le macerie del ponte di Allenby per passare in Giordania. La cosa forse più sconvolgente è veder ripetere oggi a Rafah scene già vissute dai nonni e genitori dei profughi di Yibna – l’attuale Yavneh, tra Tel Aviv e Gaza – al tempo in cui abbandonarono le case davanti allo sfondamento degli aggressori israeliani.

Un governo fanatico
Sono passati quasi 56 anni e oggi tocca ai discendenti di quei profughi, protagonisti della stessa scena. Oggi gli israeliani adottano la stessa tattica, che consiste nel diffondere voci allarmanti e sparare colpi di avvertimento. E quando gli abitanti spaventati fuggono dalle loro case, gli aggressori sostengono di non essere responsabili della fuga. E poi distruggono le case, visto che «tanto sono vuote e abbandonate». Il vocabolario asettico e la terminologia militare nascondono un primitivo desiderio di vendetta e un nazionalismo sfrenato. La «tradizione militare» e la «giusta causa» esentano i nostri soldati dall’obbligo di rendersi conto della tragedia umana che provocano. E il potere esecutivo, che dovrebbe dirigere l’esercito secondo criteri morali, si mostra più crudele ed estremista dei capi delle forze armate. Si preoccupa solo dell’immagine di Israele e della sua condanna da parte di «mass media ostili».

 

Come si fa a provare solidarietà per «un nido di assassini e di selvaggi del deserto, capeggiati da una banda di corrotti?». Il problema di questa domanda retorica è che si ha la forte impressione che la nostra «reazione» consista nello sfruttare la ferocia dei palestinesi per meglio «punirli», strapparli alle loro case, «sgombrare» i loro campi e appropriarci delle terre da loro abbandonate per le nostre esigenze. Generazione dopo generazione, li spingiamo a fuggire dalle loro case per poi insediarci lì, e quando si presenta l’occasione, impadronirci dei loro ultimi rifugi e cacciarli. Generazione dopo generazione, alimentiamo la coscienza dei profughi, ravviviamo il dolore della loro fuga ed esponiamo una nuova generazione alla rabbia impotente di chi è sradicato. Dopodiché, spaventati e atterriti, ci ritroviamo di nuovo davanti a persone che pensano solo a tornare nei luoghi da cui sono state cacciate.
In tutto ciò c’è qualcosa di fondamentalmente sbagliato. Se, con il pretesto di respingere una minaccia alla loro esistenza, degli ufficiali figli dei combattenti ebrei del 1948 insistono a mandare i loro figli ad «ampliare un asse stradale» - che equivale a espellere i nipoti palestinesi dei profughi del 1948 – significa che c’era qualcosa di sbagliato nella visione dei padri fondatori di Israele. Se dopo mezzo secolo la loro opera deve ancora affrontare una minaccia esistenziale, significa che siamo condannati per l’eternità. Nessuna collettività umana può sopravvivere eternamente a una guerra di sopravvivenza così crudele. Al contrario, se l’operazione è solo un incidente e una reazione esagerata, dobbiamo riflettere seriamente sulla nostra responsabilità verso un’impresa che in origine fu motivata da nobili ideali

 
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