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Mattioli e Cuccia
Tratto da http://www.doncurzionitoglia.com/mattiolcuccia.htm 

Prologo
Occorre adesso introdurre un lungo discorso su Enrico Cuccia, per studiare le diverse strade che imboccarono lui e Mattioli, e scandagliare meglio le loro personalità.
Mattioli era un fautore del “capitalismo ordinato”, come lo chiama Galli, Cuccia invece era fautore di un capitalismo “proteso verso la rivincita”.
Sia Mediobanca (Cuccia) che Comit (Mattioli) dipendono dall’IRI, vale a dire dallo Stato. “Senonchè mentre a Mattioli ciò sta bene, a Cuccia no. E gli sforzi che fa per sottrarsi alla sua tutela sono incessanti (...).
Cuccia riesce a portare nel suo “salotto” oltre al fior fiore dell’imprenditorialità italiana (dagli Agnelli ai Pirelli) la potentissima Banque Lazard che opera lungo l’asse Parigi-Londra-New York, mettendo a profitto l’amicizia che ha stretto durante la famosa missione del ‘42 con il grande banchiere ebreo Andrè Meyer. Da quel momento Mediobanca è, nei fatti, ben più “internazionale” della Comit. Una connotazione che si farà sentire. Quando, negli anni Ottanta, alcuni politici tenteranno di estromettere Enrico Cuccia da Mediobanca, a differenza di quanto si verificò con Mattioli, scendono in campo a suo sostegno i potentati esteri oltre che quelli nostrani. E i politici sono obbligati a ripiegare, accettando successivamente (1988) la “privatizzazione” di Mediobanca. Perchè gli “amici” di Cuccia si chiamano Lazard e Deutsche Bank” (35).

Mattioli e Cuccia sono agli antipodi per quanto riguarda la loro attitudine nei confronti delle grandi famiglie imprenditoriali. Mattioli (il dominus della Comit) restò sempre un “servitore dello Stato”, mentre Cuccia (il dominus di Mediobanca) si schierò subito in loro favore. Così durante il regno dell’“ultimo Mattioli” i capitalisti “vanno a Cuccia”... o meglio ancora da Cuccia, poichè il Quartier Generale della finanza italiana ha cambiato indirizzo e timoniere.
Mattioli è costretto a ripiegarsi sui suoi libri e sulla sua cultura. “Tuttavia i segni lasciati da don Raffaele non vengono scalfiti nè dal tempo, nè dalle mode. E almeno su un punto tutti concordano: nessuno era riuscito, come lui, a mantenere la Comit , e con essa il centro motore della finanza italiana, libero e indipendente. E incutere rispetto alla classe imprenditoriale” (36).
Il Galli scrive: “Enrico Cuccia è stato di volta in volta dipinto come un angelo o un demonio. Probabilmente in lui albergano entrambe le anime” (37). Il capitalismo internazionale gli ha affidato pieni poteri per la “provincia Italia” “e pertanto quel poco di internazionalità e di capitalismo che ancora esiste sotto i nostri cieli, lo dobbiamo a lui” (38).

La vita
Cuccia nasce a Roma il 24 novembre 1907. La sua famiglia ha origini greco-albanesi, ma è perfettamente integrata nella buona borghesia di Palermo. Un amico di famiglia “Guido Jung, classe 1876, gocce di sangue ebraicotriestino... suggerisce a papà Beniamino Cuccia... di trasferirsi in Roma... agevolandolo nell’assunzione al Ministero delle finanze.
Per questa coincidenza che si rivelerà propizia, Enrico viene alla luce a Roma anzichè a Palermo. Con un padrino illustre come Jung. (...) La carriera finanziaria di Cuccia inizia col piede giusto: nel 1932 alla Banca d’Italia, portatovi da Guido Jung che nel frattempo ha percorso molti gradini lungo le scalinate del potere.
(...) Tanti incarichi preludono alla nomina a ministro delle Finanze.

È il 20 giugno del 1932. Nemmeno tre mesi dopo, il 12 ottobre, Enrico Cuccia entra in Banca d’Italia. …è il pupillo... del potentissimo ministro, che agli occhi del duce ha il merito d’intrattenere buone relazioni con la business-community internazionale, rapporti cui Mussolini... tiene moltissimo” (39).
Occorre sapere che Jung era filoamericano, e Cuccia imparò molto dal filoamericanesimo di Jung, e soprattutto due cose: “1°) un modo per aggirare, se necessario, l’arcigna… oligarchia economico finanziaria continentale; 2°) il riconoscimento (o l’intuizione?) che i nuovi centri del potere sono in via di migrazione dall’Europa all’altra sponda dell’Atlantico” (40). Cosa che Mattioli non aveva voluto ammettere e che gli costò cara!
Nel giugno del 1934, Guido Jung trasferisce Cuccia all’IRI, gestito da Alberto Beneduce. “Se Jung proviene dalle schiere liberali Beneduce ha alle spalle un passato socialriformista, corroborate da alte cariche nella massoneria… Il napoletano Beneduce è il massimo, e sempre ascoltato, consigliere economico del duce che lo riceve quotidianamente. Ministro delle Finanze (Jung n.d.r.) e presidente dell’IRI (Beneduce n.d.r.) viaggiano comunque in perfetta sintonia (...).

È sicuramente velleitario, eppure non irreale, il tentativo dell’Italia dei primi anni Trenta di stabilire un rapporto privilegiato con gli USA… A farsene carico non è il governo, bensì quell’establishement economico che ha messo le sue competenze al servizio del fascismo, pur non condividendone l’ideologia antiliberale. Se Jung ha da rassicurare i circoli finanziari dove forte è l’influenza ebraica, a Beneduce toccano i massoni” (41).
Galli ha scritto: “[Cuccia] crede in Dio, è osservante; ma la sua fede è laica, calvinista, lontana anni luce da ogni forma di clericalismo e d’ingerenza della Chiesa nei pubblici affari: nessun prete-trafficante varcherà mai la soglia di via Filodrammatici” (42). E ancora: “Cuccia è un cattolico ultraosservante, con messa e comunione quotidiane..., ma il suo è un cattolicesimo particolare. È un giansenista... E per un giansenista, rigoroso quanto elitario, gli “altri” cattolici sono populisti...” (43).

Cuccia, la massoneria e la Comit
Se si prescinde dalla possibile influenza del suocero Alberto Beneduce, che massone lo era certamente, testimonianze serie sull’appartenenza di Cuccia alla massoneria ci vengono da Michele Sindona e dalla vedova di Roberto Calvi, la signora Clara.
Galli scrive: “In un incontro all’Hotel Pierre di New York, nell’estate 1976, Sindona mi disse: “Mattioli ha creato Mediobanca per togliersi dai piedi Cuccia che è persona pericolosa… lavora per portare la finanza italiana sotto il dominio della Grande loggia”. Innanzi alla commissione parlamentare d’inchiesta sulla loggia massonica P2, Clara

Calvi ha dichiarato: «Quando gli (al marito Roberto n.d.a.) domandavo perchè Cuccia e Sindona, pur essendo massoni, non andavano d’accordo, mi rispondeva: “Appartengono a due logge diverse”» (44).
Nel 1938, con le leggi razziali, le cose si mettono male per Jung, che essendo ebreo viene emarginato. Beneduce invece che è soltanto… massone resta in sella e deve intervenire rendendo ufficiale il fidanzamento tra Enrico Cuccia e sua figlia, che si chiama Libera Idea Socialista [non è uno scherzo… è veramente un nome di… battesimo!]. Egli invita l’amico Raffaele Mattioli, amministratore delegato della Comit, ad assumere il futuro genero Enrico Cuccia, col rango di dirigente, a Milano, nell’ufficio di piazza Scala dove gravitano Ugo La Malfa, Giovanni Malagodi, Cesare Merzagora, Adolfo Tino, “vale a dire una buona fetta della futura classe dirigente “liberal” che ritiene il fascismo una dolorosa parentesi della storia” (45).

Carlo Bombieri, collaboratore di Cuccia alla Comit, dice che Cuccia aveva “un’ambizione senza confini, spietata, incontenibile. Qualche volta, a quattr’occhi, non esitava a manifestarla: l’aspirazione al potere da realizzare con il maneggio del denaro, in quanto nei confronti della politica nutriva un assoluto disprezzo intellettuale, generalmente non si sbilanciava; (...) detestava il fascismo ma teneva in rispetto il concetto di autorità. Aveva una concezione castale della società, retta da un “uomo forte”. Con un’eccezione: il Papato di Roma non gli andava a genio” (46).
Maurizio Mattioli, il figlio di don Raffaele, ha detto al Galli: “Quando le discussioni politiche si facevano più aspre... l’ho sentito esclamare con rabbia: “ci vorrebbe un Clemenceau”... Un riferimento al Clemenceau… radicale, massone legato al Grand Orient de France, che aveva chiesto ai fratelli la “discesa nell’arena” per affermare, nella società e nella politica, i “valori” delle logge?” (47).

La missione a Lisbona
La missione di Cuccia a Lisbona rappresenta il momento decisivo e se si vuole “magico” della sua vita.
Nel 1942, mentre il Giappone dilaga nel Pacifico, l’asse Roma-Berlino-Tokio sta vincendo la sua ultima, effimera, battaglia, prima di perdere la guerra. La vittoria sembra arridere all’Asse, “C’è però chi, in Italia, convinto del contrario, si prepara al dopo. Non irenicamente, ma agendo. È la nascita del Partito d’azione, laico, progressista (ma oppositore del modello comunista) ed elitario: nella convinzione che a “scrivere la storia” siano gli ideali e gli interessi di pochi illuminati. Il popolo… non potrà che seguirli” (48).
Gli azionisti ( La Malfa , Tino e Parri) ritengono di dover stabilire un contatto con l’America e scelgono Cuccia per l’importantissima missione. Enrico andrà a Lisbona (con la complicità di Raffaele Mattioli) con una copertura reale: le trattative per il trasferimento della partecipazione Comit in Sudamerica.

Cuccia deve far giungere un messaggio al conte Sforza, che sta cercando di farsi accreditare in America come il più genuino antifascista. Cuccia porta il messaggio a Lisbona e lo consegna a George Kennan, il quale s’imbarca per l’America e lo recapita a Carlo Sforza.
“Alcune confidenze strappate a Guido Carli, Cesare Merzagora e Giovanni Malagodi [conversazioni informali con l’autore Giancarlo Galli fra il 1989 e il 1991]… consentono di abbozzare un ben più complesso… scenario. Probabilmente Enrico Cuccia non fu semplice “postino” e… non esitò ad andar oltre (...) intuì che muovendosi con scaltra intelligenza poteva trasformarsi da comparsa in protagonista di una nuova fase… del capitalismo italiano” (49).
A Lisbona un finanziere ebreo-francese Andrè Meyer aspetta Cuccia. Meyer è un partner della Banque Lazard, che nel 1940 ha dovuto abbandonare Parigi, a causa dell’invasione tedesca, e che ha cercato di rimontare la “baracca” a New York. Tra Cuccia e Meyer nasce un sodalizio fondato su una convinzione: quella di ristabilire il primato della finanza e del supercapitalismo sulla politica, evitando gli errori del comunismo e del keynesismo o capitalismo statalistico, che agli occhi di Cuccia (e di Meyer) è un’eresia (mentre è l’ideale di Mattioli).

Cuccia, Meyer e la Banque Lazard
La Banque Lazard fu fondata da Abraham Lazard, ebreo boemo, che nel 1792, ai tempi della rivoluzione francese, aveva lasciato Praga per raggiungere il Paese che aveva concesso agli ebrei cittadinanza e diritti civili.
Andrè Meyer nacque sulla fine dell’Ottocento, da una famiglia ebraica di modeste condizioni; libero pensatore, autodidatta, lavora come fattorino presso un agente di cambio ebreo; divenuto procacciatore d’affari, viene notato da David Weill della Banca Lazard, ma Andrè non vuole essere soltanto assunto, pretende di essere “associato”. Lo trattano da pazzo, ma qualche mese dopo ci ripensano. “Nella potente quanto riservata Banque Lazard, Meyer assumerà presto un ruolo da protagonista. (...)
“Cinico e assetato di danaro” giudica con severità Carlo Bombieri… Non so come e quando Cuccia lo abbia conosciuto. Nel momento in cui me lo presentò, era tuttavia chiaro che si conoscevano bene, e che Enrico lo idolatrava… Spiegava spudoratamente che per lui arricchirsi era un culto, e i mezzi non gli importavano...”.
Quello dei Lazard è un mondo particolarissimo. “Banchieri di sinistra, radicalsocialisti, patrioti, anticlericali, visceralmente anticomunisti”, li ha dipinti Anne Sabouret (50).

Cuccia “azionista”
Ritornato a Milano, Cuccia è promosso codirettore centrale, e all’assemblea del 31 marzo 1943 il suo nome compare nell’organigramma del top-management Comit. Subito dopo il 25 luglio, Cuccia si ritira con Mattioli nella fattoria toscana di Nozzole, dove li coglie l’8 settembre. Alla notizia dell’armistizio raggiungono Roma, sicuri di un imminente arrivo degli americani. «Nella Roma occupata, Enrico Cuccia è l’ombra di Raffaele Mattioli. “Papà stava praticamente rinchiuso assieme a Cuccia nella sede della Comit in piazza Santi Apostoli, dispensando ogni sorta di consigli e aiuti”, afferma il figlio Maurizio» (51).
Gli americani entrano in Roma il 5 giugno 1944. Mattioli si è già formato un progetto politico: salvare casa Savoia facendo dimettere Vittorio Emanuele III e anche Umberto II, per promuovere il giovanissimo Vittorio Emanuele IV, affidando nel frattempo la reggenza a Maria Josè, affiancata da un consiglio di reggenza che sarebbe stato composto di: De Gasperi, Einaudi, Togliatti, Croce e Mattioli stesso.

Cuccia non è d’accordo, (è repubblicano convinto) e si dedica a un’iniziativa più specifica: la creazione di una banca d’affari.
“Carlo Bombieri… ricorda: “Mattioli voleva dar vita a uno strumento per compiere operazioni, allora non consentite dalla legge bancaria assai restrittiva, ma indispensabile allo sviluppo di un’Italia moderna. Cuccia era portatore di un altro concetto: una banca d’affari elitaria, alla cui guida implicitamente si candidava”.
Per Raffaele Mattioli gestire una grande banca... è un’incombenza faticosa e persino ingrata. Per lui, legato alla cultura classica, il denaro è semplicemente un mezzo (e nemmeno troppo nobile) per realizzare delle cose. Ai suoi occhi, i soldi non hanno un’anima… ama l’Italia e gli italiani, e lo proclama ad alta voce. Per Enrico Cuccia, il danaro è numero, e nei numeri risiede la geometria cosmica del potere… il concetto di patria lo lascia freddo, ciò che conta sono le classi superiori...” (52).

La seconda missione in America
Nell’autunno del 1944 il governo di Ivanoe Bonomi invia una delegazione negli USA. La formazione della missione fu opera dell’allora sottosegretario agli esteri Visconti Venosta che scelse i due membri principali del gruppo: Quintino Quintieri, già ministro delle Finanze del governo Badoglio a Salerno, e Raffaele Mattioli, allora amministratore delegato della Banca commerciale italiana che portò con sè Enrico Cuccia. “La scelta di Cuccia dipendeva dal fatto che si trattava, in quel periodo, dell’unico italiano in qualche modo accreditato presso gli americani.
L’ambasciatore George Kennan aveva conosciuto lui, non altri; Andrè Meyer magnificava le doti del giovane finanziere italiano, non di altri (...).
Siamo alla vigilia della Conferenza di Yalta… nel corso della quale Churchill, Roosvelt e Stalin si spartiranno il mondo. Il premier britannico vorrebbe rimettere in sella le monarchie di Grecia, Italia, Jugoslavia. Gli USA no. E in modo identico la penseranno i successori: Harry Truman e Dwigth Eisenhower. Cuccia, strenuo repubblicano, è in pratica l’unico membro della delegazione a trovarsi in sintonia con i vertici politici americani. Nonchè con l’arcivescovo di New York, Joseph Spellman, col sindaco, Fiorello La Guardia , e con quel mondo che fa riferimento alla Masonic Hall… dove… Andrè Meyer è di casa” (53).

La nascita di Mediobanca (10 aprile 1946): La grande svolta dell’economia italiana
Cuccia, come lui stesso ama sostenere, “s’identifica” con Mediobanca, perciò la storia delle sue gesta, non più in qualità di eminenza grigia ma di banchiere a pieno titolo, prende il via dalla fondazione dell’istituto, il 10 aprile 1946, che coincide anche con la sua nomina a direttore generale.
Cuccia ha soltanto trentanove anni. “Perchè proprio lui? (...) Ciò che oggi sappiamo della lunga strada percorsa all’ombra di Beneduce e Jung, dei rapporti vieppiù stretti con Andrè Meyer, delle missioni delicate, dell’impegno nel Partito d’azione, allora era noto a pochissimi. Ci si accontentava di considerarlo un fedele discepolo di Raffaele Mattioli, e questo rassicurava e garantiva. È proprio alla scomparsa del banchiere di piazza Scala che i veli cominciano ad aprirsi, per merito di Eugenio Scalfari: “Niente di più lontano da lui [Mattioli] di un Cuccia, di un Rockefeller o d’un Abs [il ministro delle Finanze di Hitler] (...). Questi uomini hanno portato nel loro mestiere un che di puritano e d’esclusivo, ...relegando al margine della loro giornata quanto non fosse banca. Il contrario di Mattioli...” (L’Espresso 5 agosto 1973).

Toccherà ancora a Scalfari andare oltre, un anno più tardi: “Enrico Cuccia… veniva dalla covata Comit (...) Mattioli lo stimava… ma capì presto che, alla lunga, non sarebbero andati d’accordo… Cuccia era un banchiere quanto Mattioli e forse di più, e questo l’ottimo don Raffaele non lo sopportava, almeno sotto lo stesso tetto di casa. Perciò quando si autorizzò Mediobanca, il candidato naturale c’era già.
Da quel momento, Enrico Cuccia avrebbe fatto corpo con la sua creatura (...) ebbe l’ambizione di costruire… una banca d’affari con rapporti internazionali. L’assillo di questo siciliano trapiantato a Milano è sempre stato quello di sprovincializzare l’economia italiana… Questa tendenza verso il cosmopolitismo, il fascino esercitato su di lui dalla grande finanza internazionale… hanno costruito a Cuccia un piedistallo di superiorità indiscutibile...” (E. Scalfari-G. Turani, Razza padrona, Feltrinelli, Milano, 1974, p. 159 e segg.)” (54).

Cuccia rassicurava l’intero arco costituzionale: gli americani, dato il suo passato resistenzial-azionista, i comunisti che lo ritengono una longa manus di Mattioli, la DC e De Gasperi, data la sua amicizia col cardinale Spellman.
“L’unico a cui non piaceva era Mario Scelba, (...) “ossessionato” dalle ombre massoniche aleggianti nel mondo finanziario e in particolar modo su coloro che avevano gravitato nel Partito d’azione.
Dopo aver cercato di opporsi alla riconferma di Mattioli alla Comit, Scelba s’esercitò anche nel boicottare Cuccia-Mediobanca; ma subì un altro smacco, anche per l’intervento di… don Luigi Sturzo, che aveva trovato un alleato nel giovane finanziere nella lotta che s’andava profilando con Enrico Mattei… aedo dello statalismo economico.
La “guerra perduta” di Mario Scelba… non impedì che attorno alla Comit e ancor più a Mediobanca continuasse ad aleggiare… l’alone massonico” (55).

Mattei per Cuccia era il nemico numero uno, perchè Cuccia era convinto che Mattei potesse vincere la sua battaglia che è fatta di ostilità agli USA, di solidarietà verso le nazioni emergenti, che esige una presenza attiva dello Stato nell’economia, che ha come punto di riferimento De Gaulle: “combattente, cattolico, autoritario, nazionalista, allergico agli americani” (56).
Mattei fu ucciso, al colmo della sua potenza, il 27 ottobre 1962. Il Galli scrive: «Qualunque sia stata la causa della sua morte, fra i “nemici” si collocava, in primissima fila, lo gnomo di via Filodrammatici. – E continua - Fu a cena da Enrico Mattei... che sentii per la prima volta nominare Enrico Cuccia… disse Mattei: “È molto bravo, sa dove vuole andare, e bisognerà fare i conti con lui. Se passa ci distrugge... Qui stanno le divisioni di Cuccia: i francesi, gli americani, i tedeschi, gli ebrei...” Baldacci [direttore del “Giorno”] fece presente che “è uomo di Mattioli, un amico”; al che Mattei scosse la testa, con un “ne riparleremo” pieno d’irritazione” » (57).

Cesare Merzagora
Merzagora nato a Milano nel 1898 e diplomatosi in ragioneria, viene accolto alla Comit di Toeplitz che lo invia nell’allora importante sede di Sofia in Bulgaria, ove fonda un giornale antifascista.
Richiamato in Italia, rifiuta la tessera del PNF e Mattioli (succeduto a Toeplitz), per evitargli guai, lo manda in missione in Francia, Marocco e nei Balcani. Nel 1938 i Pirelli gli offrono la carica di direttore generale. Durante la guerra civile, entra nei gruppi clandestini liberali (il Partito d’azione lo lascia perplesso). Ai primi del maggio 1945, proposto dagli anglo-americani e col consenso dei comunisti, diventa “alto commissario” alla Pirelli. Ma convintosi che l’Italia abbia una classe borghese marcia, pianta la Pirelli per andare in Brasile, dove, a San Paolo, lo raggiunge un messaggio di De Gasperi: “L’Italia ha bisogno di un uomo come Lei!”.

Il “ragionier Cesarino” si rimbarca per la Madrepatria , sbarca a Genova, e prende un treno per Roma ove arriva giusto in tempo per giurare come ministro per il Commercio estero.
Viene eletto il 18 aprile del 1948 (riconfermato nel 1953 e nel 1958) nelle liste democristiane come “indipendente”. Infatti è laico o meglio laicista e liberale “allergico ad incenso e candele” - scrive il Galli - “ma ciò non gli impedisce di trovarsi in sintonia con De Gasperi… nemmeno gli è sgradito Enrico Mattei, almeno sin a quel drammatico 1955, quando Mattei gli sbarra la strada al Quirinale per favorire Giovanni Gronchi. Nell’occasione… il boss dell’ENI aveva fatto correre la voce che Cesarino fosse in odore di Massoneria” (58).

L’elezione di Gronchi, con l’appoggio del PCI, lo rese insofferente, quasi ribaldo e così, pian piano, perde amici per strada: Mattioli, Carli, Andreotti, Colombo, Malagodi, La Malfa. “Gli resta un rapporto intenso, ancorchè punteggiato da asprezze, con Enrico Cuccia. (...) costretto a lasciare la presidenza del Senato… si ritrova sì senatore a vita, ma “disoccupato”. Ed Enrico Cuccia lo raggiunge con una telefonata di plauso e sostegno, invitandolo in via Filodrammatici” (59). Però entra in frizione anche con Cuccia, il quale lo ritiene capace, ma un po’ megalomane, e si convince che l’amicizia dimostratagli da Cuccia non era sincera: voleva strumentalizzarlo, e lui non intende essere la marionetta di nessun burattinaio. Pertanto inizia a cuocere la vendetta a fuoco lento.
Negli anni Settanta Cuccia crede ancora nel capitalismo puro e duro. “Convince gli Agnelli a rinunciare alla smobilitazione e al trasferimento in USA: nella prospettiva del PCI al governo, Ugo La Malfa aveva ventilato di nominare l’Avvocato ambasciatore a Washington. Per questo proposito, [Cuccia] non manca di redarguire l’amico carissimo: “le Cassandre non servono!” Pertanto impone l’Avvocato alla presidenza della Confindustria (1974) e stimola il dottor Umberto (1976) ad accettare la candidatura al Senato nelle liste democristiane.

Bisogna chiedersi che ne sarebbe stato dell’imprenditorialità privata italiana senza la Mediobanca di Enrico Cuccia. La risposta degli “amici di via Filodrammatici” è categorica: tutto sarebbe finito nelle mani di uno Stato demagogico, inefficiente e corrotto” (60).
Com’è riuscito Cuccia a salvare l’esercito dell’impreditoria italiana, in rotta negli anni di piombo, quando gli stessi generali meditavano la fuga? “Enrico Cuccia allargava le braccia, bisbigliando “C’est le hasard...”. Diabolicamente abile, lasciava gli interlocutori sulla brace. “Le hasard” può essere il Caso o, per straordinaria assonanza, l’onnipotente Lazard!” (61).

Cuccia, Sindona, Calvi, Gelli e la P 2
Verso la fine degli anni Sessanta inizio Settanta, assistiamo ad un altro scontro: quello tra Cuccia da una parte e Sindona, e quindi indirettamente anche Roberto Calvi, dall’altra. Sono gli anni in cui agiscono Gelli e la Loggia P 2.
Michele Sindona nasce a Patti (Messina) l’8 maggio 1920 da famiglia povera e riesce a laurearsi (105/110).

Vedendo che la guerra prende una cattiva piega e che la situazione di Mussolini si fa precaria, comincia a studiare l’inglese per “ammanicarsi” con gli Americani; nel dopoguerra si avvicina alla DC. Nel 1950 può già permettersi di acquistare una società del Liechtestein, la Fasco A. G., con quali mezzi non si sa. Nel 1955 riesce ad introdursi nella Curia di Milano, dove è appena giunto il nuovo arcivescovo, Giovan Battista Montini. “Fra colloqui e relazioni curiali... Sindona arriva ad un riservatissimo finanziere: Massimo Spada dello IOR, la banca del Vaticano, e suo tramite, qualche anno dopo, a monsignor Paul Marcinkus. Da quel momento il suo potere diventa davvero tentacolare in quanto le tante buone relazioni trovano un imprevedibile punto di convergenza: la Banca privata finanziaria (BPF) di via Giuseppe Verdi in Milano (...). Qualificatissima la clientela che vi fa capo: dai Pirelli a... Cesare Merzagora... Il proprietario, Ernesto Moizzi, è un aristocratico che sta cercando di uscire dagli affari, monetizzando” (62).

Sino alla metà degli anni Cinquanta, Cuccia e Sindona si erano ignorati «sino a far nascere l’impressione di un’assurda gelosia fra siciliani... L’incontro del disgelo avviene in Mediobanca... poi ricambiato in via Turati... A Sindona viene offerto di “collaborare”; e lui risolve magistralmente un problema fiscale della Fidia... È solo una breve parentesi di pace: la rissa riesplode quando Marinotti propone di cooptare Sindona nel consiglio di amministrazione della SNIA Viscosa dopo aver ottenuto il beneplacito di Tino (...).

Cuccia avrebbe voluto attribuirsi la paternità della nomina, e Sindona gli ribattè che c’era già stato il gradimento di Tino. Al che, secondo Sindona, Cuccia avrebbe replicato con tono alterato: “Dovresti sapere che in Mediobanca sono solo io a prendere decisioni” » (63). Ma il guaio grosso scoppia quando Sindona tenta di “bidonare” la Sofina , truccando i bilanci. Però alla Sofina si trova come general manager Paul Boel. Per togliere il figlio dai guai il padre corre da Andrè Meyer, suo amico fraterno, che lo passa a Cuccia. “Viene predisposta una transazione, ma Sindona s’intestardisce. La sua provocazione appare mirata: dimostrare che il banchiere di via Filodrammatici contava in patria come una scartina a briscola. Messo alle strette dalla Corte arbitrale di Ginevra, Sindona sarà costretto a “conciliare” versando mezzo miliardo di penale. Poco per il portafoglio, moltissimo per l’immagine. Non ammaestrato dallo smacco, ci riprova. C’è in ballo l’acquisizione dell’americana McNeil & Libby… Sindona, ignorando le sollecitazioni di Cuccia, anzichè rivolgersi a Meyer che pretende di controllare la piazza di New York, opta per un altro filone della finanza ebraica, la Lehman Brothers.

Meyer, indignato, dopo aver sottoposto Sindona a una sorta di processo presso la Lazard di Parigi, sentenzia che debba essere messo al bando… lo snodo cruciale è qui: nella “scomunica” comminata da Andrè Meyer e ratificata, a New York, in un summit della Confraternita degli gnomi, dove si decide che nella “provincia Italia” vi sia spazio unicamente per Mediobanca” (64).
Tuttavia si dissociano sia i Lehman sia gli Hambro, ed anche alcuni esponenti della Continental Illinois. Tra i consulenti legali di questa cordata anti-Meyer vi è Richard Nixon.
“Si tratta di avvenimenti importanti, che dimostrano l’inesistenza, almeno in questa fase, di qualunque demarcazione tra “finanza laica” (Mediobanca) e “finanza cattolica” (Sindona). C’è piuttosto uno scontro tra Meyer-Lazard e il “resto degli gnomi”, che però è estremamente disarticolato (...).
Per quasi un decennio nè la Banca d’Italia nè gli industriali nè i “moralisti” Cesare Merzagora e Raffaele Mattioli prenderanno apertamente posizione tra Cuccia e Sindona. Non che rifiutino di cogliere le reali dimensioni del contrasto (la conquista del monopolio della gestione degli affari finanziari), lo vedono sin troppo bene, ma giudicano che la soluzione migliore... sia il divide et impera.

D’altra parte ...Michele Sindona... affascinava... spadroneggiava nei salotti milanesi... dicendo peste e corna di Cuccia, ma anche facendo sfoggio di cultura; da Nietzsche allo Spengler del Tramonto dell’Occidente... Cuccia appare in difficoltà. Lui che non frequenta i salotti, quando gli riferiscono dell’esibizionismo del rivale, si limita a ribattere... in inglese: Unreliable, inaffidabile. Per chi conosce la fraseologia degli gnomi, nessuna accusa a un finanziere può suonare altrettanto nefasta. Ma perchè si cominci a prenderne atto occorre che Sindona scivoli sulla sua stessa arroganza” (65).
Sindona, a partire dal 1967 cerca di espugnare le due roccaforti del potere economico italiano: l’Italcementi del cattolico ultraconservatore Carlo Pesenti, e la Bastogi. Ma gli va male: Pesenti, oberato di debiti, trova solidarietà inaspettatamente in Cuccia sino allora suo avversario, e grazie a Mediobanca trova i miliardi necessari per riacquistare le azioni di Italcementi, senza doverle svendere, come pretendeva Sindona. Il Galli commenta: “Fosse davvero esistita una “finanza cattolica”… Sindona sarebbe stato sicuramente sanzionato [per aver aggredito il cattolicissimo Pesenti]; ma questo non accadde, e Pesenti migrò nell’area cucciana” (66).

A questo punto inizia la partita attorno alla Bastogi, l’offerta di pubblico acquisto (Opa) sindoniana scatta il 13 settembre 1971. “Per quattro giorni è una pioggia di adesioni e un coro di approvazioni. Ma al quinto giorno le adesioni si bloccano, per il boicottaggio dei grandi azionisti. Cuccia ha fatto intervenire Andrè Meyer. Sindona corre in Roma-Capitale, ma può solo registrare che persino Emilio Colombo, …sul quale faceva pieno affidamento, s’è schierato con Cuccia-La Malfa (...).
Sostenere che… Sindona fosse l’espressione della “finanza bianca” è dunque, almeno fino a questo punto, ...una distorsione della realtà (...) “Sindona, ma dopo lui anche Roberto Calvi, rovinarono a causa di erronee, spericolate operazioni sul mercato dei cambi”, ha confermato Guido Carli (...).
La rottura definitiva tra Cuccia e Sindona si consuma in un salottino riservato del “Club 44”… Qui pranza, solitamente il venerdì, la compagnia… Sindona..., Cuccia..., Cefis. Finchè un venerdì Sindona si ritrova… solo… Pochi minuti prima, in Mediobanca, Cuccia ha detto a Cefis che si è stancato di sedersi col diavolo” (67).

Sindona capisce che lo scontro è arrivato ad un punto di non ritorno, può contare oramai solo su Giulio Andreotti, su Anna Bonomi e su Gaetano Stammati (iscritto alla P2).
“Sconfitto, e pur costretto a riparare in America, Sindona non s’arrende… Le prime iniziative volte a coinvolgere personalmente… Cuccia risalgono alla primavera 1977, passano attraverso la minaccia di far rapire il figlio di Cuccia (...). Sindona considera il presidente di Mediobanca come uno dei peggiori nemici (...). Le cronache dell’affare Sindona (a partire dagli inizi degli anni Settanta sino alla morte, causata da una tazzina di caffè avvelenato, nel supercarcere di Voghera nel marzo 1986) restano… tuttora avvolte in una pesante coltre di nebbia. Esattamente come era accaduto per “l’incidente” aereo di Enrico Mattei, e come accadrà per l’impiccagione di Roberto Calvi… Resta la considerazione che il destino ha sempre assegnato ai “grandi nemici” di Enrico Cuccia una tragica uscita dalla scena di questo mondo” (68).

Il tramonto del keynesismo e il ritorno al capitalismo puro e duro
“Nei decenni Settanta-Ottanta, il disegno di “ritorno al capitalismo” di Enrico Cuccia cessa di essere un’utopia. I modelli keynesiani dell’economia sono in piena crisi, al pari del socialismo reale. Nel mondo anglosassone si affermano le teorie iperliberiste (“tutto va privatizzato”) dei Chicago-boys, un gruppo di economisti [capitanati dall’economista ebreo Milton Friedman, secondo il quale tutto va liberalizzato… anche la droga, l’aborto e il suicidio] che ha condotto i suoi primi esperimenti nel Cile di Pinochet [aiutato nel suo golpe anche dal Mossad]; e a loro si ispirano Margaret Thatcher... e Ronald Reagan... In Italia Cuccia è fra i pochissimi, forse l’unico ad avere previsto” (69).

La FIAT e Gheddafi
“Il primo exploit Mediobanca lo realizza a Torino, portando danaro fresco agli Agnelli superindebitati.
In Libia è al potere, ricco di petroldollari, ...il colonnello... Gheddafi (...). È grazie al... presupposto adottato da Cuccia - trovare i soldi dove ci sono, senza sottilizzare sulle origini, quindi metterli a disposizione delle grandi famiglie - che si verifica l’ingresso dei libici in FIAT. Le trattative cominciano nel 1975 (...). A propiziarlo è Andrè Meyer (...). La Lazard , che non poteva esporsi direttamente date le sue matrici ebraiche, si rivolse alla Deutsche Bank di Francoforte. Questa rifiutò l’ingresso di capitali libici in Germania, ma accettò di rendersi garante del buon esito dell’operazione indicando quale oggetto dell’acquisizione la FIAT … trattandosi di una società italiana, Meyer fu invitato ad “attivare” Mediobanca” (70).

Cuccia e Romiti
“Nel 1979, dopo l’assassinio da parte dei terroristi rossi di Carlo Ghiglieno, ...gli Agnelli decidono di abbandonare i passati, prudenti atteggiamenti, e di muoversi in controtendenza rispetto al diffuso clima di rassegnazione, per riportare ordine ed efficenza nelle fabbriche. I pieni poteri vengono affidati a Cesare Romiti, su indicazione di don Enrico che lo aveva portato in FIAT un lustro prima, nutrendo per lui incondizionata fiducia. Sessantuno dipendenti in odore di terrorismo vengono licenziati… don Enrico reputa indispensabile per il risano aziendale la “messa fuori organico” (in pratica, il licenziamento) di 23.000 dipendenti (...).
In quei giorni roventi [1980], quando Gianni e Umberto, sottoposti a molteplici pressioni, potrebbero barcollare, lo gnomoconfessore monta la guardia. Sprona gli Agnelli… aizza Romiti… E la FIAT torna a produrre, a macinare profitti” (71).

“Gli esami non finiscono mai...”
La potenza di Cuccia-Madiobanca sembra essere allo zenit. Gli imprenditori italiani sono unanimi: “Entri in Mediobanca e ne riesci rassicurato, perchè c’è un uomo che ha la bacchetta magica...”.
Il Galli narra un episodio illuminante sulla personalità di Cuccia tale e quale lo ha sentito da un aristocratico milanese: Ambrogio Cesa Bianchi, nel 24 luglio 1992: “La nostra famiglia, sul finire degli anni Sessanta, fu oggetto di un tentativo di scalata alla Milano Assicurazioni - narra il Cesa Bianchi - ... Moi fratello Ariberto era un tipo strano… ma con amicizie importanti. Mio padre sospettava fosse massone, e che per questo riuscisse a restare a galla nonostante i comportamenti a dir poco bizzarri... assicurò che avrebbe pensato lui a sistemare la questione (...). Ci portò a Torino, da Camillo De Benedetti, che suggerì di rivolgerci a Cuccia (...). Finalmente arrivammo in via Filodrammatici... Cuccia salutò con calore mio fratello, e la cosa mi stupì. Se lo conosceva, come poteva avere fiducia? Sull’affare, Cuccia mostrò lucidità e idee ferme: noi rappresentavamo la tradizione, gli altri erano usurpatori. Aggiunse che per lui era ...un onore dare il suo appoggio ad un’antica famiglia (...). Ne ricavai una forte impressione, anche perchè tutto andò per il meglio: agiva come fosse depositario di un potere occulto, incontrastabile...” (72).

Eppure anche per Cuccia “gli esami non finiscono mai”, come per qualsiasi mortale al quale verrà chiesto il Redde rationem villicationis tuae, come insegna il Vangelo.
Il 1982 è per lui un anno delicatissimo, essendo arrivato alla soglia dei settantacinque anni. Mediobanca dipende dall’IRI, nel cui statuto la carica che ricopre Cuccia ha un termine anagrafico. In verità Cuccia ha oltrepassato l’età della pensione già da un lustro, ma nessuno ci aveva fatto caso. Però ora a Roma lo scenario politico è cambiato, emergono Craxi e De Mita, i quali, sebbene siano rivali, sono d’accordo nel ritenere che l’economia e la finanza italiane non possano venir gestite dal solo Cuccia; mandano in avanscoperta Clelio Darida, avvicinatosi ad Andreotti, che conserva un po’ di rancore verso Cuccia per l’affare Sindona.

Darida, in quel tempo ministro di Grazia e giustizia, cerca di portare dalla sua parte il presidente dell’IRI, Romano Prodi e Beniamino Andreatta, allora ministro del Tesoro, i quali hanno una gran voglia di mettere un freno al potere di Cuccia, mista ad un certo timore reverenziale, più che giustificato. Cuccia fiuta la manovra, tuttavia La Malfa è morto, i liberali sono oramai un fantasma elettorale, Meyer è deceduto e Cuccia è rimasto solo! Sceglie, quindi, di far finta di ritirarsi. Fa sapere che rinuncerà, senza problemi, alla sua carica e che si accontenterà di una poltrona nel consiglio di amministrazione di Mediobanca. “Darida vorrebbe tagliare il nodo alla maniera gordiana, ma finisce per prevalere la linea soft di Andreatta-Prodi, ovvero il loro sostanziale timore reverenziale verso l’unico grande banchiere nazionale in circolazione.
Per Cuccia… tutto ha da cambiare affinchè nulla cambi. Trasformatosi in “consigliere anziano”, mantiene gli stessi poteri...” (73).

Frattanto Cuccia cerca di privatizzare Mediobanca, ma “lo gnomo che credeva di giocare di sorpresa, si trova smascherato da un articolo di Cesare Merzagora, su “ la Repubblica ”. Intanto s’è rimesso in pista ...Darida, che dissotterra la spada di Damocle del “limite d’età”: nel 1985… Cuccia deve assolutamente andarsene. E, dopo aver affossato la privatizzazione [di Mediobanca], apre il nuovo fronte” (74). Cuccia sembra dover soccombere, ma a sorpresa, il PSI si schiera con lui assieme a PRI e PLI, sebbene Craxi eviti di pronunciarsi. Il ruolo di traghettatore tra PSI e Cuccia lo ha svolto Gianni De Michelis, che fa incontrare Cuccia con Enrico Manca. Tuttavia “il tramite più importante fra Mediobanca e i socialisti (a esclusione però di Bettino Craxi) è un personaggio allora sconosciuto, Salvatore Ligresti (...). Ora, nel momento in cui il dominus di via Filodrammatici ha seri problemi con la DC , Ligresti torna utile per stabilire un legame con i socialisti. Anche se non ancora con Bettino Craxi, sospettosissimo nei confronti dei grandi finanzieri e della bussiness-community” (75).

La vittoria di Cuccia
Nell’autunno 1985, Darida attacca, sostenuto da De Mita; Craxi non muove un dito. “Entra a questo punto in scena...Gianni Agnelli, dichiarando di rinunciare alla carica di consigliere in favore di Cuccia. De Mita giudica la proposta una provocazione...Darida… rifiuta il baratto, mandando deserta l’assemblea di Mediobanca del 28 ottobre. (...) Cuccia, spazientito, vola a Parigi. Breve riunione alla Lazard, col consigliere Jean Guyot che firma la sua lettera di dimissioni a favore di Cuccia, che pertanto continuerà a sedere in via Filodrammatici per conto della banca francese cui spetta… una poltrona. Con quella lettera in mano… lo gnomo inaffondabile può celebrare in serenità il suo settantottesimo compleanno” (76). Contemporaneamente inizia la graduale privatizzazione di Mediobanca.
La finanza italiana è stata ceduta così al “proconsole” (Cuccia) degli “stranieri” (i Lazard).
L’economista Sergio Ricossa ha scritto: “Mediobanca è quasi tutto nella finanza privata italiana, è quasi nulla nella finanza internazionale” (77).

La privatizzazione di Mediobanca
Cuccia nel 1986 sta cercando un nuovo presidente per Mediobanca; la scelta cade su Antonio Maccanico, nato ad Avellino nel 1924, cresciuto in una famiglia antifascista e di “liberi pensatori”. Il 6 febbraio 1987 Maccanico accetta la presidenza di Mediobanca, dopo aver ottenuto l’assicurazione che si tratta di un incarico effettivo e non di “facciata”.
Galli commenta: “I politici, l’IRI, ritengono di aver ingabbiato Cuccia... “ La Repubblica ” esulta: “con l’arrivo del nuovo presidente… comincia davvero il dopo-Cuccia”. (..) L’abbaglio - riprende il Galli - è di prima grandezza. Maccanico rimarrà in via Filodrammatici dodici mesi (...). Periodo brevissimo, ma sufficiente a rendere possibile la privatizzazione indolore di Mediobanca” (78).
Con la privatizzazione, il primato di Mediobanca è fuori pericolo. Cuccia si è imposto. Tuttavia occorre rammentare che se in Italia Cuccia è “il padrone dei padroni”, all’estero è un esecutore di ordini dei Lazard, un “proconsole”, come lo chiama il Galli, in breve colui che deve realizzare in Italia il piano consegnatogli dalla Banque Lazard e da Andrè Meyer, oramai defunto, ma ben rimpiazzato.

La morte della Prima Repubblica e la “eviternità” di Cuccia
Il 24 maggio 1990, l’ottantatreenne Cuccia convoca Francesco Cingano, presidente effettivo di Mediobanca: Cuccia deve farsi ricoverare per un intervento chirurgico alla prostata, come Mattioli...
Il 31 maggio a piazza degli Affari a Milano lo si dà per morto. I titoli di Mediobanca flettono. Ma Cuccia ricompare, diafano, in via Filodrammatici il 4 giugno. Tuttavia Mediobanca continua a cedere! Si sostiene che potrebbe frantumarsi e che Cuccia non sia più in grado di dirigere la situazione, qualcuno trama contro lui. Cuccia allora vola a Roma e s’incontra con Craxi, lo convince a lasciare le cose come stanno, nell’interesse di tutti. Nessuno dei politici si sente di aggredire a viso scoperto Cuccia.
“Ristabilita la situazione a suo vantaggio, Enrico Cuccia si reca venerdì 27 luglio all’abbazia di Chiaravalle per la messa in ricordo di Raffaele Mattioli” (79).

Guglielmina la boema
Nacque nel 1210 da Costanza d’Ungheria e dal re di Boemia Premislao I.
Tra il 1260-70 arrivò a Milano ove morrà nel 1281.
Guglielmina si considerava... Dio.
«Lo Spirito Santo era presente ed incarnato in lei» (80).
Tale dottrina ereticale creduta in segreto da Guglielma, fu insegnata da Andrea Saramita, un gioachimita millenarista. Essa può essere ruassunta così :
Guglielma è Dio Spirito Santo incarnato;
essa è venuta a portare la salvezza a coloro che sono fuori della Chiesa, specialmente gli Ebrei, (oltre i musulmani), indipendentemente dalla Mediazione di Cristo.
Se la prima tesi può essere attribuita, in senso stretto, solo al Saramita (mentre Guglielma non la professava pubblicamente, ma la lasciava circolare) ; la seconda (salvezza dei non cristiani, specialmente dei non ebrei) è attribuita direttamente a Guglielma.
Dopo la morte di Guglielma (incarnazione femminile dello Spirito Santo, che avrebbe dovuto risuscitare, come Gesù), i guglielmiti furono guidati da due maestri:
Andrea Saramita:
il “teologo” gioachimita e millenarista.
Suor Maifreda (o Manfreda) da Pirovano: (delle suore Umiliate), imparentata ai visconti.
Suor Maifreda «benedisse delle ostie che erano state deposte sul sepolcro di Guglielma, e le distribuì ai presenti» (81). Il culto della divinità di Guglielma era tenuto segreto e si svolgeva discretamente nell’Abbazia di Chiaravalle dei cistercensi milanesi, ove Guglielmina era stata sepolta e donde avrebbe dovuto risorgere.
Suor Maifreda era il capo religioso dei guglielmiti (i credenti nella divinità di Guglielma).
Maifreda insegnava magisterialmente e amministrava i sacramenti. Essa era il vicario di Guglielma, come Pietro (o il Papa) lo è di Cristo.
Papa Bonifacio VIII condannò il guglielmismo, sia dottrinalmente che moralmente (a causa delle orge sessuali che vi si praticavano).
Nel 1300 (il 10 aprile) suor Manfreda celebrò messa «assistita da diaconi e suddiaconi, rivestì gli abiti sacerdotali» (82).
Maifreda «prima del 1284 [data del primo processo inquisitoriale, nda] credeva che Guglielma fosse la terza persona della SS. Trinità, venuta in terra a liberare gli ebrei» (83).
Naturalmente - secondo i guglielmiti – Guglielmina, essendo Dio, era superiore alla Madonna.
Secondo alcune fonti storiche Guglielma conviveva “more uxorio” con Andrea Saramita, essi vivevano in una sinagoga sotterranea (84), ove si abbandonavano a disordini sessuali con i loro seguaci, secondo l’aspirazione dei fratelli del Libero Spirito (85).
Altri autori non ritengono storicamente fondata questa notizia. Comunque è certo che Guglielma, Spirito Santo incarnato, ha scelto come sua “papessa” Maifreda e che «il Papato, con la curia romana, devono cedere la loro autorità a Maifreda, la quale deve battezzare gli ebrei… e tutti gli altri… che sono fuori dalla Chiesa» (86).
Inoltre «attraverso Guglielma dovevano venire alla fede e alla salvezza ebrei e musulmani» (87).
Infatti «il Sacrificio di Cristo non è bastato; una parte dell’umanità è rimasta simbolicamente “incarcerata”. Ebrei e musulmani sono il simbolo di tutto quello che rimane sulla terra… di “non libero” (88).
Qualche storico vede un legame tra il Saramita, i francescani millenaristi e il movimento del “Libero Spirito”.
Questa squallida vicenda si concluse nel 1300, quando l’inquisitore Guido da Cocconato «successore di S. Pietro Martire» aprì un processo contro i guglielmiti e mandò al rogo il Saramita, Maifreda assieme al cadavere dissotterrato di Guglielmina:
Quel che colpisce è che Raffaele Mattioli abbia scelto come sua tomba il sepolcro che aveva occupato per nove anni circa Guglielmina.
Ma il millenarismo è duro a morire, vi è un filo conduttore che da gioachino da Fiore sino ad oggi spera in una terza èra dello Spirito Santo, èra di libertà assoluta e di ecumenismo universale.

Il capitalismo italiano nella tempesta
L’attacco di Saddam Hussein al Kuwait crea difficoltà sui mercati. La recessione può rivelarsi catastrofica per l’Italia. Giovanni Agnelli, Carlo De Benedetti, Raul Gardini e Leopoldo Pirelli invocano Cuccia. “Con la tempesta Cuccia torna indispensabile. I problemi della FIAT… sono enormi… quelli dell’Olivetti… angosciosi. Leopoldo Pirelli arranca (...). Ma la patata che veramente scotta è l’Enimont. Lì sembra in gioco la struttura stessa del capitalismo italiano (...).
Cuccia ha ...una duplice preoccupazione: evitare l’auto affondamento del “sistema” e non rimettere in discussione il principio delle privatizzazioni” (89).
Il giorno dell’ottantatreesimo compleanno (24 novembre 1990) di Cuccia, esce un’intervista velenosa contro Mediobanca che Carlo Bombieri ha rilasciato al “Corriere della Sera”. L’ex collega di Cuccia “mastica amaro” per essere stato emarginato e il suo insistere sul fatto che Mediobanca ha preso “una strada assai diversa da quella che avrebbe voluto Mattioli” tradisce una certa nostalgia del passato.

“[Cuccia] sa benissimo di non aver seguito le orme del maestro, ma se lo avesse fatto, non avrebbe cavato un ragno dal buco: il mitico maestro venne impallinato dai politici a settantasette anni, mentre lui è ancora al suo posto, con buone possibilità di restarci a lungo” (90).
Nel 1991 Cuccia riesce a salvare la Pirelli dall’abbraccio mortale con la tedesca Continental; per il salvataggio della Pirelli, Mediobanca ha chiesto un forte aiuto a Salvatore Ligresti che, ...nell’agosto 1991, si fa scappare di “essere divenuto il primo azionista Pirelli, per aiutare Mediobanca che intende mantenere la sua regia e che mi ha chiesto d’intervenire restando in secondo piano”. Ma “questi giochi non erano piaciuti a Torino, agli Agnelli. Pertanto, quando Umberto Agnelli e Gianluigi Gabetti decidono all’inizio del 1992 di conquistare la società Exor… ritengono di poter fare a meno di Cuccia. Sarà un altro disastro, poichè la Lazard si schiera con gli avversari dei torinesi.
Cuccia, defilatissimo, riuscirà a fatica a reincollare i cocci, facendo in modo che Giovanni Agnelli e Michel David Weill, il “patron” della Lazard, tornino a stringersi la mano (...).
Tante sono… le spine per Cuccia ma la più dolorosa si chiama Salvatore Ligresti” (91).

Ligresti: un’amicizia pericolosa
Ligresti è accusato di rapporti con la mafia e per la sua supposta pericolosità, i giudici hanno ottenuto una proroga della sua detenzione preventiva. “Nulla emergerà in proposito, ma a Milano, nell’occasione c’è chi ha la lingua molto sciolta. Come Piero Bassetti...: “Vorrei… ricordare che il primo a dire che il capo dei mafiosi era Cuccia, sono stato io...” (“Il Giorno”, 26 ottobre 1992). Qualcuno vorrebbe scaricare Ligresti da Mediobanca, per esempio Cesare Romiti, ma Cuccia è irremovibile e afferma “Maramaldo è la figura storica che più detesto”.
“Ma perchè Enrico Cuccia difende con tanto accanimento, oltre all’amico Ligresti, il Ligresti-consigliere? Per solidarietà interessata, viene spontaneo supporre. In carcere, don Salvatore… mantiene il riserbo...” (92).

Mediobanca “in politica”
Cuccia non ha mai stimato i politici italiani. Desiderava un uomo forte, ma non giungeva. Era stato colpito, inizialmente, da Craxi, però ben presto ne fu deluso. Così cominciò a lavorare da sè perchè le cose cambiassero. Andò di persona al “Giornale” di Montanelli, con il quale era in buoni rapporti sino alla rottura della primavera 1994, ad apporre la firma per il referendum Segni (che avrebbe visto bene come primo ministro) sulla preferenza unica. Poi aveva incitato Giorgio La Malfa sulla via dell’opposizione, rompendo una linea che da Giolitti a Mussolini a De Gasperi, aveva fatto sì che gli imprenditori fossero per tradizione filogovernativi. “Il cambiamento avrebbe potuto realizzarsi con una clamorosa sconfessione del ceto politico dominante, resa possibile da un parallelo successo al Nord di repubblicani e leghisti. Ne ha… discusso con Giorgio La Malfa , incitandolo ad avere un occhio di riguardo per i sanculotti di Umberto Bossi, il quale gli ha fatto una notevole impressione. Costoro metteranno le fanterie, il PRI gli ufficiali” (93).

Conclusione
A partire dalla “morte” di Enrico Mattei (1962) sembra che in Italia regni un’assenza di strategie economico-finanziarie alternative a Mediobanca. Chi ci ha provato (Sindona, Calvi) è stato… “sconfitto”...
“Di finanza, da trent’anni almeno, ne esiste una sola: quella di Cuccia” (94). Tuttavia anche Cuccia è un uomo, speciale sì, ma non onnipotente ed eterno!
Il Galli ammette: «Anche a Enrico Cuccia... il tentativo di portare l’imprenditorialità in Europa è riuscito solo parzialmente… Nonostante [ciò], Cuccia resta fra i pochissimi, forse l’unico [in Italia], a disporre di una strategia (...).
L’ultima volta che ho stretto la mano ad Enrico Cuccia è stato il... 27 luglio 1995, nell’abituale scenario dall’Abbazia cistercense di Chiaravalle, per il ricordo di Raffaele Mattioli. È arrivato puntuale come al solito... a testimoniare una dimensione umana che... il cinismo professionale, non ha intaccato. Era in splendida forma fisica, e dimostrava almeno vent’anni in meno... Gliel’ho detto, e mi ha sorriso: “Sì, la forma c’è. Come potrei, altrimenti, continuare?”» (95).

Nonostante abbia compiuto novant’anni, il 24 novembre 1997, Cuccia è lucido e conta ancora.
“La dimostrazione, eloquente, c’è stata proprio ieri, quando Antoine Bernheim, potente presidente delle Generali [di Trieste], si è recato di prima mattina in Mediobanca per avere da lui la benedizione prima di proporre in consiglio la sua strategia per conquistare il colosso francese Agf. Il consiglio e il potere di Cuccia, insomma, contano ancora (...).
Difficilmente, senza l’opera di Cuccia, l’Italia potrebbe oggi presentarsi in Europa con imprese private di un certo peso... E questo perchè è stato lui ad aver eretto, grazie alla sua tela di alleanze italiane e internazionali, un bastione inespugnabile per la partitocrazia” (96).

NOTE:

[G. GALLI, Il banchiere eretico. La singolare vita di Raffaele Mattioli, Rusconi, Milano, 1998]
35) Ibid., pagg. 215-216.
36) Ibid., pag. 217.
37) G. GALLI, Il Padrone dei Padroni. Enrico Cuccia, il potere di Mediobanca e il capitalismo italiano, Garzanti, Milano, 1995, pag., 9.
38) Ibid., pag. 9.
39) Ibid., pag. 25.
40) Ibid., pag. 26.
41) Ibid., pag. 27.
42) Ibid., pag. 72.
43) Ibid., pag. 222.
44) Ibid., pag. 30, nota 11.
45) Ibid., pag. 31.
46) Ibid., pag. 32.
47) Ibid., pag. 33.
48) Ibid., pag. 34.
49) Ibid., pag. 35.
50) Ibid., pag. 37.
51) Ibid., pag. 39.
52) Ibid., pag. 41.
53) Ibid., pag. 42.
54) Ibid., pagg., 60-61.
55) Ibid., pag. 63.
56) Ibid., pag. 79.
57) Ibid., pag. 80 e nota 1 alla stessa pagina.
58) Ibid., pag. 101.
59) Ibid., pag. 101.
60) Ibid., pag. 111.
61) Ibid., pag. 112.
62) Ibid., pag. 117.
63) Ibid., pag. 119.
64) Ibid., pag. 119.
65) Ibid., pagg. 120-121.
66) Ibid., pag. 121.
67) Ibid., pag. 124.
68) Ibid., pagg. 125-126.
69) Ibid., pag. 136.
70) Ibid., pag. 137.
71) Ibid., pag. 140.
72) Ibid., pagg.141-142, nota 6.
73) Ibid., pagg. 142-143.
74) Ibid., pag. 148.
75) Ibid., pag. 150.
76) Ibid., pag. 151.
77) SERGIO RICOSSA, Come si manda in rovina un Paese. Cinquant’anni di malaeconomia, Rizzoli, Milano, 1995, pag. 236.
78) G. GALLI, op. cit., pag. 159.
79) Ibid., pag. 190.
80) L. MURARO, Guglielma e Maifreda. Storia di un’eresia femminista, La Tartaruga , Milano, 2a ed. 2003, pag. 31.
81) Ibid., pag. 53.
82) Ibid., pag. 69.
83) Ibid. pag. 88.
84) Ibid., pag.125.
85) La setta del “Libero Spirito”
L’eresia del Libero Spirito consiste in un falso misticismo che esagera la libertà sino a renderla assoluta, negando così ogni freno o limite all’uomo. 
Il fratello del Libero Spirito si riteneva assolutamente perfetto «da essere incapace di peccato» (N. COHN, I fanatici dell’Apocalisse, Comunità, Milano, 2000, pag. 182).
Egli riteneva di avere il diritto di fare quanto era comunemente proibito. Le orge sessuali erano la pratica comune di tale setta (come di ogni setta).
Per il Libero Spirito «tutti i membri del clero [erano] ingannatori di anime e strumenti del diavolo» (Ibid., pag.184).
Ognuno di essi si considerava l’incarnazione dello Spirito Santo ed esercitavano il ruolo di profeta della “Terza Alleanza” gioachimita.
Oltre la lussuria, costoro si facevano notare per l’ostentazione di lusso ed eccessiva ricchezza (Ibid., pag. 191).
«Le donne [cfr. Guglielma e Maifreda, nda] svolsero una parte di rilievo nel movimento del Libero Spirito» (Ibid., pag. 195), assai diffuso in Boemia.
Il nucleo di tale eresia era più che una teoria, un’aspirazione «l’appassionato desiderio di superare la condizione umana e diventare Dio» (Ibid., pag. 213). Anzi essi pretendevano di «aver superato Dio» (ibid., pag. 215).
Tali deviazioni sono continuate sino ai nostri giorni, sotto forma di esoterismo o “metafisica tradizionale” (cfr. Guènon, Evola, Schuon).
86) Ibid., pag.138.
87) Ibid., pag.154.
88) Ibid., pag. 156.
89) Ibid., pagg. 190-191.
90) Ibid., pag. 197.
91) Ibid., pag. 209.
92) Ibid., pag. 210.
93) Ibid., pag. 211.
94) Ibid., pag. 242.
95) Ibid., pag. 248.
96) “ La Stampa ”, 23 novembre 1997, pag. 25.
Recentemente i quotidiani hanno scritto: “Grande finanza... armistizio Mediobanca-Lazard. Bernheim presidente fino al 2001: “Nessuna ombra nei rapporti con Cuccia”. Trieste. È scoppiata la pace alle Generali? (...) I vertici del Leone hanno impiegato energie a profusione per dimostrare... che non c’è mai stata guerra nè all’interno della compagnia, nè fra i suoi maggiori azionisti, Mediobanca e Lazard. «Mai sentito di nessuna guerra”, ha sottolineato... Antoine Bernheim, presidente confermato del colosso triestino. (...) Bernheim, socio gerente di Lazard, ha quindi aggiunto che è e resta vicepresidente di Mediobanca... “Con Enrico Cuccia... sono amico da 35 anni e non c’è mai stata un’ombra nei nostri rapporti” » (“Il Corriere della Sera”, 28 giugno 1998, pag. 17).
Cfr. anche “ La Stampa ”, 28 giugno 1998, pag. 19.
Inoltre per quanto riguarda le Assicurazioni Generali, occorre sapere che “Alcune famiglie di vittime dell’olocausto hanno citato in giudizio sette compagnie di assicurazioni europee - fra le quali le italiane “Generali”... - accusandole di aver... compiuto irregolarità su polizze sulla vita contratte tra il 1920 e il 1945. L’azione legale punta ad ottenere risarcimenti-danni per un ammontare di diversi miliardi di dollari...”. (“ La Stampa ”, 1 aprile 1997, pag. 13).
Conclusione della vertenza: “Il fondo di 12 milioni di dollari costituito dalla società di assicurazione Generali di Trieste in memoria dei suoi assicurati scomparsi nell’olocausto è stato presentato ieri a Gerusalemme nel corso di una cerimonia che si è svolta alla Knesset...” (“ La Stampa ”, 12 novembre 1997, pag. 14).

 
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