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Il
Patto di Shangavia
Di Carlo Bertani 24 agosto 2007
La
notizia che i russi hanno ripreso i voli dei grandi bombardieri
strategici è stata commentata da Washington con sufficienza : «Se
hanno voglia di spendere quattrini per far volare qualche ferrovecchio»
è stato il commento statunitense «padroni di farlo». Il commento
americano, sotto il profilo militare, è ineccepibile.
Chiariamo che per gli aspetti militari la mossa russa non ha nessuna
rilevanza: qualche decrepito TU-95 Bear (ad elica!), oppure le poche decine di TU-160 Blackjack
che sono rimasti alla Russia dopo il crollo dell’URSS, non hanno
nessun rilievo strategico. I più moderni bombardieri strategici russi
sono forse paragonabili ai B1-B americani: certamente una
“generazione” addietro rispetto ai B2-Spirit, che sono aerei stealth.
Rimangono poche centinaia di TU-22/26 Backfire,
che sono però grandi bombardieri destinati soprattutto all’attacco
contro le navi, ma non portano armi strategiche in senso stretto e,
soprattutto, non hanno l’autonomia per reggere i lunghissimi
pattugliamenti oceanici. Gli americani, dunque, hanno perfettamente
ragione nel definire un bluff la mossa russa.
Se
i russi bluffano, anche Washington non scherza: la colossale
“puparata” messa in piedi sul sistema di difesa anti-missile, vale
quanto far decollare qualche aereo ad elica sul Mar Artico.
Il
progetto di difesa anti-missile – partorito ai tempi di Reagan –
ebbe l’acronimo di MAD (Missile Air Defense): qualcuno, all’epoca,
fece notare che “mad”,
in inglese, significa “pazzo”. Perché? Poiché quel progetto è una
completa follia.
Si
parla tanto di “ombrello protettivo” contro le armi nucleari, ma
nessuno sa ancora oggi come attuarlo.
La
teoria del progetto era questa, suddivisa in quattro fasi:
1)
Distruzione dei
missili, dallo spazio, mentre sono ancora in fase di preparazione al
lancio nei silos, a terra.
2)
Intercettazione
con missili lanciati da satelliti o navette nella fase di salita.
3)
Stessa storia,
quando i missili raggiungono l’apogeo della traiettoria (qui,
sarebbero dovute intervenire armi laser d’elevata potenza).
4)
Distruzione dei
missili residui, durante la picchiata dei veicoli di rientro, mediante
missili intercettori lanciati da terra (le prime stesure del progetto
prevedevano anche “armi a tiro rapido” poi, forse per decenza, i
cannoni sparirono).
Le
simulazioni del tempo, prevedevano che circa l’85% dei missili fossero
distrutti: l’assurdità è tutta contenuta in quel 15% che, in ogni
modo, colpisce l’obiettivo.
C’è però una seconda incongruenza: le armi da utilizzare nello
spazio – che dovrebbero “coprire” tre dei quattro punti – sono
di là da venire. Laser di grande potenza…missili iperveloci…brusche
correzioni di traiettoria mediante piccole cariche pirotecniche
comandate dal computer di bordo…tante chiacchiere e basta.
Furono effettuati tre lanci di prova di un missile intercettore da
Kwajalein (Oceano Pacifico), per colpire dei bersagli (Minuteman)
lanciati dalla California. I primi due furono un fiasco completo, mentre
il terzo – effettuato nel 2002, nell’occasione del primo incontro
fra Bush e Putin, a Lubiana – fu coronato da successo.
Un successo effimero, perché la verità venne a galla poche settimane
dopo: sul Minuteman, gli
americani avevano installato una specie di radiofaro per guidare il
missile intercettore. Un pietoso inganno: nella realtà –
all’opposto – il missile attaccante diffonderebbe come contromisura
elettronica decine di falsi echi, altro che guidare l’avversario
urlando ai quattro venti “Sono qui, ehi, dove stai andando? Da questa
parte…”
La
casistica delle intercettazioni non depone certo a favore dei tentativi
USA: i paleolitici SCUD di
Saddam Hussein non furono mai intercettati dai Patriot americani. Il dispiegamento delle batterie, anche oggi,
avviene soltanto come misura psicologica nei confronti delle
popolazioni.
Una seconda misura, fu quella di nascondere le perdite: un solo civile,
affermarono all’epoca gli israeliani, morto per infarto. 155 morti,
ammisero qualche anno dopo.
Il sogno d’intercettare un oggetto che cade dalla stratosfera ad
In
questi frangenti, si capovolge la nota teoria che, in guerra, vede
avvantaggiato chi si difende: basta un minimo incremento, nelle velocità
e nell’imprevedibilità delle traiettorie di un missile attaccante,
per mandare in fumo anni di ricerche e realizzazioni in chiave
anti-missile. Difatti, il nuovo missile russo Topol-M sarebbe già oggi difficilmente intercettabile, anche se il
tanto strombazzato sistema americano fosse affidabile.
Si aggiunga che lo stesso fenomeno avviene per le tecnologie stealth:
ciò che è “invisibile” al radar, dipende dal tipo di radar e da ciò
che si cerca. Difatti, i radar russi S-300 ed S-400, “beccano” sia i
B-2 che gli F-117: una volta stabilita la forma dell’oggetto da
cercare, tutto il lavoro di anni dei progettisti aeronautici viene
vanificato cambiando semplicemente l’hardware ed il software dei
sistemi. Altra cosa sembrerebbe essere la protezione fornita da sistemi
al plasma, sviluppata per i loro aerei dai russi: la notizia è
ovviamente stata pubblicata solo per gli aspetti generali, mentre la
parte più squisitamente tecnologica è, ovviamente, “classificata”.
In ogni modo, non potendo verificare se il sistema esiste per davvero,
non lo possiamo considerare per le nostre analisi.
Altro
fatto da non sottovalutare è che gli armamenti convenzionali in uso,
oggi, sono quelli ereditati dalla guerra fredda: poche novità, perché
– cessato il rischio di un puramente teorico scontro titanico nelle
pianure europee – non c’era bisogno di spendere soldi in ferraglia
militare. Difatti, tutti “tirano avanti” con quel che hanno.
F-16 ed F-15 da una parte, Mig-29 e Su-27 dall’altra…insomma, la
solita roba, alla quale ogni tanto di dà una “riverniciata”. Tutti
i programmi per nuovi velivoli, da una parte e dall’altra, viaggiano
con la velocità di una lumaca. Riflettiamo che, a 18 anni dal crollo
del Patto di Varsavia, non è entrato in servizio un solo velivolo
veramente innovativo: F-22 Raptor (sembra che sia appena iniziata la
consegna ai reparti) e JSF americani, Mig-35 e Sukoi vari sono ancora
dei prototipi.
Se il quadro militare è un completo non
sense, perché azzuffarsi tanto?
Gli
eventi acquistano senso soltanto se vengono privati proprio della loro
componente squisitamente militare, per osservarli invece alla luce delle
strategie di lungo respiro. Qui, dobbiamo fare un passo indietro.
La disgregazione dell’URSS, coincise praticamente con i due mandati di
Clinton, all’incirca dal 1992 al 2000.
Prima, però, c’era stato il vigoroso impulso alle spese militari dato
da Reagan e proseguito da Bush I il Vecchio. Gli USA giunsero ad
investire il 7% del PIL in ferraglia militare, il che condusse l’URSS
ad un parallelo incremento, che fu stimato nel 16,5% del PIL russo. Sono
cifre abbastanza indicative, ma non da valutare al centesimo: da un
lato, la possibilità di celare nelle “pieghe” dei bilanci
stanziamenti occulti, dall’altra la difficoltà di misurare, con il
metro occidentale, l’economia sovietica.
In
ogni modo, Mikhail Gorbaciov ammise sostanzialmente il problema di
competere negli armamenti con gli USA, quando dichiarò a Demetrio
Volcic – allora inviato a Mosca della RAI – che “non era possibile
reggere quel ritmo, perché l’economia americana valeva due volte e
mezza quella sovietica”.
E’
quindi dalle parti di William Clinton che dobbiamo cercare se vogliamo
capire la ragione del sostanziale immobilismo USA per quasi un decennio.
Uno dei cavalli di battaglia di New American Century – think-tank
dei neocon americani –
fu proprio l’accusa nei confronti di Clinton d’essere imbelle nei
confronti dei russi, oramai in ginocchio.
Bill
Clinton non affondò la lama nei confronti della Russia – durante il
mandato di Eltsin sarebbe stato in grado di farlo – per numerose
ragioni, non ultima il grave pericolo della svendita a prezzi da hard
discount dell’arsenale nucleare sovietico.
Non
sottovalutiamo però altri aspetti: la teoria, definita
“multipolare” di Clinton, valutava già allora che l’euro sarebbe
stato un pericoloso competitore, e quindi non era il caso di farsi
troppi nemici in giro per il mondo.
La resistenza di Clinton su questo punto fu ferrea: mentre i
conservatori americani gli montavano contro il caso Lewinsky, e non
perdevano occasione per attaccarlo al Congresso affermando che il
Presidente stava vanificando un’occasione storica, non mosse la barra
della sua politica di un solo grado.
Vennero gli attentati in Kenya e Tanzania, ma Clinton rispose con il
simbolico lancio di qualche missile sulla supposta residenza afgana di
Bin Laden. Giunse, soprattutto, la guerra del Kosovo.
L’importanza
strategica di quel conflitto è stata troppo sottovalutata, cancellata
dalla successiva “guerra al terrorismo” di Bush: eppure, a ben
vedere, i frutti del dopo nacquero dai semi lasciati in Kosovo.
Anche in Kosovo – se valutassimo il solo aspetto militare – gli
eventi non avrebbero molto senso: perché fermarsi – quando il
“fronte interno” serbo stava disgregandosi – e lasciare una guerra
a metà, che ha finito per generare una situazione incancrenita e, a
lungo termine, insostenibile?
Non stiamo parlando del destino dei serbi e degli albanesi – né a
Clinton e né a Bush la cosa interessava ed interessa più di tanto –
ma stupisce notare che Clinton arrestò una guerra praticamente vinta,
mentre Bush ne continua altre (Iraq ed Afghanistan) praticamente perse.
I
piani per un ingresso in forze in Serbia dall’Ungheria e
dall’Albania erano pronti e – pur ammettendo una coriacea resistenza
serba – in poche settimane gli americani sarebbero entrati in
Belgrado. Le fasi finali di quel conflitto furono torbide, con il gen.
Clark – che stava per attaccare i paracadutisti russi giunti a
Pristina dalla Bosnia – tanto che fu fermato, da un suo sottoposto
britannico, pare con una telefonata a Blair.
I russi erano pronti ad inviare altre truppe con un ponte aereo per
ottemperare agli accordi armistiziali, ma furono avvertiti, sempre in
extremis, che il corridoio aereo per i loro velivoli non era stato
completamente garantito. Immaginiamo cosa sarebbe successo se un Antonov
fosse stato abbattuto nei cieli rumeni o bulgari.
Ci sono molti punti interrogativi che rimarranno tali, e conviene
arrestarsi ai soli aspetti strategici, perché quella guerra causò –
anche se gli USA non ebbero un assetto completamente unipolare come dopo
il 2000 – le prime incrinature del “dopo guerra fredda”.
La
prima, evidente, fu il bombardamento dell’ambasciata cinese a
Belgrado, camuffata con la pietosa scusa del solito “errore”. Non
sappiamo con certezza se la ritorsione avvenne perché i cinesi
attuavano ponti radio per conto dei serbi, e sarebbe curioso conoscere
anche chi “accecò” il radar di Tuzla, nell’occasione del
bombardamento serbo del 14 aprile 1999 (peraltro, successivo al
bombardamento dell’ambasciata cinese). A meno di credere che il radar
di Tuzla fosse in completa avaria: in piena guerra?
Gli
altri “scontenti” furono i francesi, che mal digerirono i piani di
volo preparati dagli americani e consegnati come brogliacci di volo alle
loro unità, senza consultare i comandi. Lo digerirono tanto male che un
loro ufficiale, a Bruxelles, li “passava” direttamente ai serbi.
Furono poi smaccati dalla consegna delle miniere di Trepca a società
britanniche: su quelle miniere, ci aveva già messo gli occhi Napoleone
III.
Il
disastro peggiore, però, fu la sconfessione del piano di pace di
Chernomyrdin – uomo di Eltsin e considerato il probabile Delfino –
che, per il fallimento della sua missione, in quella guerra perse ogni
possibilità di sedersi al Cremlino.
In pochi mesi, invece, venne “ripescato” un oscuro colonnello del
KGB – Vladimir Putin – che dopo un anno veniva consacrato come zar
di tutte le Russie.
Ora,
fermandoci un attimo a riflettere su queste vicende, verrebbe da
chiedersi se Clinton “preferì” il morbido approccio unipolare
all’arroganza di Bush. Soluzione semplice, troppo semplice.
Pur ammettendo delle differenze fra le due amministrazioni USA, esse
differiscono non tanto per gli obiettivi, quanto per i metodi: anche a
Clinton – siamone certi – non sarebbe spiaciuto mettere in ginocchio
russi, cinesi e – perché no – anche gli europei più
“riottosi”.
A
differenza di Bush, però, fece solo qualche sondaggio in quella
direzione, e gli esiti sopra indicati lo convinsero che la strada era
troppo pericolosa, anche per la sola potenza planetaria rimasta.
Qui,
dovremmo chiederci: ma, gli USA, erano veramente una potenza planetaria?
Quando si assume quel termine per indicare il completo dominio di una
potenza, s’intende che essa domina tutto il pianeta, che nessuno può
prendere iniziative di un certo peso politico senza l’assenso della
potenza dominante.
E’ il caso degli USA? Non mi sembra.
L’Impero
Romano dominava tutto il mondo antico conosciuto (dell’impero cinese,
non si sapeva praticamente nulla) e, fin quando il potere di Roma resse,
nessuno ebbe l’ardire di metterlo in dubbio. A meno di pagarlo a caro
prezzo.
L’Impero Britannico, partendo da meno dell’1% delle terre emerse (
L’analisi
dei neocon statunitensi –
quel loro affermare l’avvento “del nuovo secolo americano” –
erano prive di fondamento: per mezzo secolo s’erano confrontati con
Mosca, ma appena Mosca era caduta era nata Pechino.
Nel volgere di quel mezzo secolo, gli USA erano passati a controllare
dal 50% al 20% del commercio mondiale: il Giappone, risorto dalle ceneri
di Hiroshima, metteva ogni giorno in dubbio il primato tecnologico di
Washington.
Non mi sembrano, questi, gli attributi di un pianeta dominato da una
sola potenza.
Gli
eventi successivi posero in primo piano gli aspetti petroliferi: senza
una consistente e costante richiesta di dollari, la divisa americana
correva il rischio di perdere rapidamente terreno nei confronti
dell’euro.
Ma, l’aumento iperbolico del greggio – da
Cina ed India divennero rapidamente terreno di scontro per gli
investimenti fra le maggiori potenze: curioso notare come Bush – in un
quadro nel quale la potenza economica USA perdeva terreno – preferì
giocare tutto sull’opzione militare. Metaforicamente, Bush –
avanzando verso Baghdad – compì la conquista di Belgrado che Clinton
ritenne troppo pericolosa per i futuri assetti del pianeta (ovviamente,
in termini di vantaggio strategico per gli USA).
Oggi,
è troppo tardi per tornare indietro; Bush ed i suoi consiglieri non
sono così stupidi da non rendersene conto: semplicemente, non hanno
altre scelte.
La nuova “guerra fredda” che sta prendendo forma è quindi
sintomatica di una situazione d’impasse internazionale: Russia e Cina
giocano la carta dell’alleanza militare, i primi consci che per almeno
40 anni saranno i “padroni” del gas che alimenta l’Europa, i
secondi perché possono tranquillamente ignorare le velleità USA. La
difesa di Taiwan – fiore all’occhiello della strategia USA –
potremmo, per usare un eufemismo, affermare che è molto
“appannata”: e i miliardi di dollari del debito americano in mani
cinesi?
Sull’altro
fronte, Mosca e Pechino sanno bene che non sarà facile né breve far
“sloggiare” gli americani dall’Afghanistan – sognato “ponte”
occidentale nei confronti dell’Asia Centrale – né dal Golfo
Persico.
I segni di debolezza, in Iraq, diventano ogni giorno più evidenti: dopo
aver appoggiato per anni la fazione sciita, poche settimane or sono i
jet americani hanno bombardato Sadr City, roccaforte degli sciiti
iracheni. Dall’altra, sognare un riavvicinamento con la fazione
sunnita – dopo il tanto sangue scorso ed una poco “provvidenziale”
impiccagione di Saddam Hussein – sembra più un incubo che una
speranza.
La strategia americana pare quindi più dettata da una dilagante
schizofrenia che da un lucido piano strategico: proprio per la sua
sostanziale mancanza di realismo, corre il rischio di diluirsi nel tempo
come in Vietnam. Una sorta di sconfitta annacquata negli anni, un
tentativo di conservare almeno qualche spicciolo nelle tasche
irrimediabilmente bucate e pagata con il sangue di tanti giovani
statunitensi (oltre, ovviamente, dagli iracheni): non a caso, spunta la
proposta da “ultima spiaggia”, ufficializzata dagli alti gradi del
Pentagono, di ricorrere nuovamente alla leva obbligatoria.
Personalmente,
ci credo poco: significherebbe, come per il Vietnam, “riportarsi il
morto in casa”, con tensioni sociali che oggi sono poco avvertite
proprio perché l’esercito è formato da mercenari mentre, se i
giovani americani fossero nuovamente forzati nel polverone
iracheno…beh…
Anche
dall’altra parte, però, più che qualche tintinnar di baionette non
si può far udire: i cinesi hanno inviato il loro primo uomo nello
spazio, ma queste cose – russi e americani – le facevano quasi mezzo
secolo fa.
L’affossamento – con la caduta dell’URSS – dei piani dello
shuttle russo, ha condotto alla dolorosa rinuncia alla stazione spaziale
che avrebbe dovuto rimpiazzare
In
una simile situazione, che c’è di meglio di un po’ di guerra
fredda?
Da
una parte si corteggiano Polonia ed Ucraina, mentre dall’altra si
moltiplicano le violazioni dello spazio aereo georgiano da parte russa.
La marina cinese si potenzia acquistando incrociatori e
cacciatorpediniere russi, e dall’altra il Giappone esce dallo
“slum” militare dov’era stato cacciato dopo
Grandi manovre congiunte nelle pianure russe, ma a correre nella polvere
sono vecchi blindati con fiammanti, nuove bandiere: tanta voglia di
riconquistare la potenza perduta, ma la consapevolezza che, per molti
anni, più che un po’ di polverone non si potrà fare.
Se
a Mosca ci s’accontenta, a Washington non si ride: la potenza “blue
water” americana è indiscutibile, ma appena scendono a terra sono
guai e, se vuoi basare la tua economia sul binomio dollaro/petrolio, a
presidiare i pozzi qualcuno ci deve andare.
Riflettiamo che, da anni, gli USA non riescono ad aver ragione di
qualche decina di migliaia di guerriglieri: perché?
Poiché i grandi apparati, oggi, in guerra sono drammaticamente
vulnerabili.
La
sconfitta di Israele in Libano (la perdita di 1/7 delle forze
corazzate!) significa che, di questi tempi, il cannone è più forte
della corazza. Il “cannone”, si chiama lanciarazzi RPG e sta
mostrando tutta la sua letalità nei confronti di mezzi corazzati
superprotetti e super-tecnologici. E questa, ricordiamo, non è una
novità: nel 1986, sul confine libico, le misere forze del Ciad (armate,
appunto, con lanciarazzi e lanciamissili anticarro dai francesi) ebbero
la meglio sulle divisioni corazzate di Gheddafi, che subirono una
bruciante sconfitta a Quaddi-Doum. A voler osservare come andavano le
cose vent’anni fa, l’oggi è più comprensibile.
Oggi,
bastano pochi lanciarazzi RPG a puntamento laser e vecchie mine
anticarro per mandare in tilt l’elefantiaco apparato di controllo
americano; già lo scriveva Ernesto Guevara Linch: una forza
guerrigliera – determinata ed armata, che riceve rifornimenti di armi
e gode dell’appoggio della popolazione – non può essere domata da
potenti eserciti.
Sappiamo che gli iracheni non sono certo grandi ammiratori degli yankee,
ma possiamo facilmente comprendere da dove giungono le armi. Tutta la
tecnologia bellica in mano ai guerriglieri iracheni ed afgani ha un solo
marchio: prodotta forse in Iran, in India, in Cina in qualche caso in
Russia o nelle repubbliche dell’Asia Centrale. La “madre” di tutta
quella tecnologia, però, è
In
definitiva, la politica neocoloniale di Bush cozza proprio contro un
altro assioma degli irriducibili liberisti: vogliamo un’economia senza
pastoie né limiti, in grado di spostare capitali e risorse laddove
s’ottengano maggiori utili.
Va da sé che lo stato nazionale, in quest’ottica, perde importanza e
addirittura senso: Bush si comporta come colui che mette in salvo
qualche tanica di carburante, mentre non s’accorge che il tetto ed i
muri della casa si stanno rapidamente disgregando.
Gli USA hanno investito nella guerra enormi ricchezze, giungendo a
ricavare assai poco: la produzione petrolifera irachena – a causa
della perdurante instabilità, degli attentati e del pessimo stato
dell’apparato petrolifero dovuto ad anni d’embargo – non è
risalita oltre la produzione prebellica (del 1991). Fu proprio il primo
governatore dell’Iraq – Paul Bremer – ad osservare “che ci
stiamo rimettendo”: niente paura, chi s’accorge dell’inganno viene
sostituito.
In
un quadro di fallimento totale della politica di potenza – per non
aver capito che i destini dell’umanità si basano, oggi, più sugli
aspetti economici che sulle “cannoniere” – la miglior scelta è il
“congelamento”. Quasi un sinonimo di “guerra fredda”.
Nuove
alleanze? L’India che si smarca dal legame con Mosca? Può essere: però
– per approdare alla “Triplice” insieme ad USA e Giappone –
Delhi deve potersi permettere d’acquistare (non in conto finanziamenti
a fondo perduto!) armamenti americani al posto di quelli russi (con ben
altri costi).
E ritorniamo da capo: una potenza “planetaria” sarebbe in grado di
fornire a Delhi quel che le serve senza chiedere troppo. Della serie:
butta via i Mig-29 ed i Su-27 e non ti consegniamo – con finanziamenti
alle calende greche – F-16, F-15 e, se sarai bravo, anche qualche
F-22.
Può
ardire a tanto una nazione super indebitata, che ha ridotto al minimo
sindacale quasi tutte le retribuzioni, che gioca oramai su un piatto di
poker per salvarsi (la vicenda dei mutui…) e che dovrà affrontare,
prima o dopo, un altro Vietnam ritirandosi dall’Iraq?
La situazione americana di questi anni – che il nuovo inquilino della
Casa Bianca dovrà risolvere – assomiglia molto alla condizione della
Gran Bretagna dopo
Le velleità di potenza – a Washington – ci sarebbero, ma manca
l’ingrediente essenziale per sorreggerla: i soldi.
Come si può notare, dopo tanti strombazzamenti, non c’è stato nessun
attacco all’Iran – come avevo più volte previsto – e così non ci
sarà, nel breve e nel medio termine, nessuna Terza Guerra Mondiale.
Un
lungo periodo d’assestamento; una nuova “guerra fredda”, appunto:
quello che serve quando quella “calda” non te la puoi permettere.
Carlo
Bertani articoli@carlobertani.it
www.carlobertani.it