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Quando Samuel Huntington celebrava Lenin
Di Serge Salimi - «Le Monde Diplomatique» dicembre 2003

L'ordine politico nelle società in transizione: pubblicato nel 1968, negli Stati uniti questo libro di Samuel Huntington è ancora proposto nelle scuole come un classico delle scienze sociali (1). In materia di nation building, è ricco d'insegnamenti, anche per i consiglieri di George W. Bush. L'autore detesta l'ingenuità degli «idealisti», che confidano nella disponibilità dei popoli del Sud ad imitare il «modello americano».
Spiega infatti che, contrariamente a quanto affermano tutti i presidenti degli Stati uniti, «l'esperienza americana ha poco da offrire ai paesi in via di sviluppo. La rivoluzione americana non è stata una rivoluzione sociale come quella francese, russa, cinese, messicana o cubana: è stata una guerra d'indipendenza. E inoltre, non una guerra d'indipendenza condotta da autoctoni contro conquistatori stranieri, ma una guerra di coloni contro il loro paese d'origine. Il vero confronto andrebbe fatto con le ribellioni dei coloni francesi contro la Repubblica o dei rhodesiani contro il Regno unito». Difficile essere più feroce...
Privilegiando il ruolo delle istituzioni politiche, Huntington rifiuta l'idea, avanzata da John Kennedy (e ripresa più tardi dai presidenti Carter e Clinton), che commercio, crescita, pace e democrazia si sviluppino di concerto. Per lui, al contrario, la «modernità politica» non è una variabile di aggiustamento dello «sviluppo economico».
Ora, «nei paesi che si modernizzano e dove il governo è alla mercé di intellettuali contestatori, militari ribelli, studenti teppisti», ciò che manca è l'autorità. Ed è proprio di questo che approfitta il «comunismo».
Lo studio di Huntington, molto approfondito, si basa su una serie di esempi e calcoli statistici. Chi ha a cuore innanzitutto «stabilità» e ordine sociale dovrebbe dedurne che gli Stati uniti non hanno necessariamente interesse a favorire il decollo economico dei paesi più arretrati.
Del resto, a Huntington appare semplicistica l'idea che la povertà alimenti la violenza: «Quando i paesi poveri mostrano segni di instabilità, non è perché sono poveri, ma perché cercano di diventare ricchi.
Una società puramente tradizionale resta allo stesso tempo povera, ignorante e stabile».
L'autore utilizza senza risparmio i dati della Banca mondiale, all'epoca completamente favorevole alle teorie da lui contrastate (quelle che associano lotta per la «democrazia» e sviluppo), per provare che i paesi poveri sono in realtà più tranquilli - cioè meno minacciati dal «comunismo» - di quelli in rapida crescita. Nel 1966, per esempio, «la probabilità di un'insurrezione nei paesi latino-americani più ricchi è stata due volte superiore rispetto a quella dei paesi poveri».
È come dire che quando Kennedy lancia i suoi giovani «volontari della pace» (Peace Corps) all'assalto delle nazioni del terzo mondo, spiegando che «nelle regioni sottosviluppate, il nostro nemico non è l'aiuto o il commercio sovietico, ma la povertà, la disperazione, l'immobilismo (2)», il suo critico di Harvard è molto scettico circa le conseguenze di questo genere di diagnosi sugli interessi geostrategici americani.
Dopo tutto la «democrazia» non è la sua preoccupazione principale.
Spesso bisogna scegliere: «Come gli stati europei nel XVII secolo, i paesi non occidentali possono avere modernizzazione politica o pluralismo democratico, ma in generale non le due cose insieme».
Richelieu, Mazzarino, la fine delle fazioni, delle fronde e dei duelli non sarebbero concepibili senza la monarchia assoluta. Nel 1975, in un rapporto della Commissione trilaterale relativa ai paesi occidentali, Huntington si mostra tanto ossessionato dall'ordine, da scrivere: «La gestione efficace di un sistema democratico richiede in genere un certo livello di apatia e di non partecipazione da parte di alcuni individui e gruppi (3)». E pensava certamente agli Stati uniti...
Al di là di una filosofia autoritaria, Huntington difende il suo orticello universitario. Accettare l'idea che la democrazia all'americana derivi dallo sviluppo economico, equivarrebbe infatti a riconoscere il carattere subordinato della sua disciplina, la scienza politica.
Il professore di Harvard non accetta l'idea che essa sia una conseguenza dell'economia e delle forze sociali che l'economia stessa attiva.
Ed è proprio perché accorda priorità alle strutture politiche che ammira Lenin, teorico del potere e della sua conquista, del partito e dello stato (arrivando a paragonarlo a Madison), mentre disprezza Marx, «un politico primitivo»: «Se lo stato è realmente, come affermano i marxisti, il "comitato centrale della borghesia", allora non vale poi tanto come istituzione».
Fin dalle prime righe del libro di Huntington si evidenzia la sua ossessione: «La differenza politica più importante tra i paesi non dipende dalle loro forme di governo, ma dal livello di governo (...).
Stati uniti, Gran Bretagna e Unione sovietica hanno forme di governo diverse, ma, in tutti e tre i casi, il governo governa».
Chi oggi, nelle analisi di Huntington sostituisse «comunismo» con «islamismo», sarebbe tentato di concludere che gli Stati uniti sono partiti male sia in Afghanistan che in Iraq. Infatti, non si preoccupano affatto delle istituzioni politiche, non cercano di creare un'autorità nazionale legittima, ma si affidano a tribù o fazioni, si adattano al caos, subordinano il futuro - e la pace civile - a un aleatorio sviluppo economico dei paesi che occupano. Nel 1968, Huntington sosteneva: «la funzione politica del comunismo non è quella di rovesciare l'autorità, ma di colmare il vuoto lasciato dalla sua assenza».

note:
(1) Samuel Huntington, Political Order in Changing Societies, Yale University Press, 1968. Le citazioni che seguono sono tratte da questo libro.
(2)
Citato da André Kaspr, Kennedy ou les milles jours d'un président, Armand Collin, Parigi, 1993.
(3) Samuel Huntington, The Crisis of Democracy, New York University Press, New York, 1975.
(Traduzione di G. P.)

 
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