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Se
        Scaroni fosse Mattei…
        Ovvero:
        tesori, tesoretti e straccioni.
        
        di Carlo Bertani – 11 giugno
        2007
La
        politica italiana, aggrovigliata su sé stessa, oramai discute soltanto
        di facezie: s’arrovella per chiedersi se il comandante della Guardia
        di Finanza debba essere un uomo speciale o normale, se sia meglio
        destinare quattro soldi a questo od a quel ministero, se “ingolfare”
        
        Una destra populista confonde la volontà popolare con le proprie
        necessità di non cedere troppo tempo agli anni, e così s’inventa –
        osservando la data di nascita del suo leader – di chiedere al Capo
        dello Stato nuove elezioni, dopo aver strappato all’avversario quattro
        comuni alle Amministrative.
Il
        Governo, prigioniero di mille ricatti, provvede alla “normale
        emergenza” governando con il voto di fiducia, mentre un’opposizione
        agguerrita si rallegra, concia delle difficoltà altrui, proprio perché
        sono “altrui” e non deve sbucciarsele in casa. Fanno finta di non
        ricordare quando cambiavano i ministri dell’Economia pescandoli dal
        mazzo delle carte, e Bruxelles tuonava.
        La situazione italiana segue oramai un copione impazzito, quello di una
        destra che non è europea ma quasi sudamericana e quello di una sinistra
        che si rallegra per le amicizie che conta nella finanza internazionale,
        al punto di dover tacitare i sindacati con un piatto di lenticchie.
        Vale la pena, ancora, di seguire la commedia? No, perché è recitata da
        persone normali, mentre avremmo veramente bisogno di persone speciali.
        Se non le avessero crocifisse da decenni.
Oggi,
        ci si rallegra perché il gettito fiscale ha creato un avanzo di
        bilancio – il cosiddetto “tesoretto” – del quale non sanno con
        precisione nemmeno a quanto ammonta: si va da 
        Eppure, ogni anno che passa, le stime sulla “bolletta energetica”
        aumentano con la progressione dei consumi e gli aumenti dell’energia
        sul mercato internazionale. Alcune cifre?
        La “bolletta energetica” italiana, prevista per il 2007[1],
        è di circa 45 miliardi di euro, dei quali 24 per il solo petrolio. Nel
        2006 furono 48 miliardi, ma ricordiamo che i 45 miliardi del 2007 sono,
        per ora, una previsione. Un misero aumento del barile – dovuto ad una
        guerra, una guerricciola, un uragano, un allarme sulle stime –
        potrebbe cambiare il quadro.
        Sono 45 miliardi di euro che prendono la via dell’estero, dalla Libia
        all’Arabia Saudita, dalla Russia alla Francia. I miliardi di euro del
        “tesoretto”, invece, provengono tutti dalle tasse degli italiani, e
        sono ben poca cosa rispetto ai numeri dell’energia. Da dove nasce
        questa situazione?
Se
        vogliamo osservare la situazione da un diverso punto di vista, potremmo
        valutare che i consumi energetici totali italiani s’attestano intorno
        ai 190 MTEP annui[2],
        comprendendo in questa cifra tutto, dalla lavatrice all’automobile.
        Ovviamente, l’energia proviene da più fonti – petrolio, gas,
        carbone, idroelettrico, acquisti d’energia elettrica sul mercato
        estero, ecc – ma, per comodità, viene valutata come se fosse tutta
        petrolio.
        Siamo abituati a considerare il prezzo del petrolio in barili (barrel), ma una tonnellata di petrolio equivale a circa 6,2 barili[3]:
        considerando un prezzo di 65 $/barile, una tonnellata costa circa 400$
        americani. 190 milioni di tonnellate, dunque, equivarrebbero a 76
        miliardi di dollari, circa 56 miliardi di euro[4].
Da
        questa cifra dobbiamo sottrarre il 10% di produzione nazionale[5],
        e siamo a circa 50. Non tutta l’energia proviene però dal petrolio e
        dal gas, ed il carbone è una fonte più economica: come si può notare,
        cifre fra i 45 ed i 50 miliardi di euro sono perfettamente coerenti con
        i consumi.
        Ecco la quadratura del cerchio, da dove nasce la tendenza a
        ristrutturare le centrali che funzionano a petrolio con il carbone: una
        semplice convenienza economica, giacché il costo dell’energia in
        Italia è più alto che all’estero.
        Si tratta, però, di una politica assai miope: ristrutturare una
        centrale comporta onerosi investimenti e anni di lavoro. Nel volgere
        d’alcuni anni, aumentando la domanda di carbone, il prezzo potrebbe
        salire e saremmo da capo: in più, con l’aggravio di bruciare carbone,
        la fonte che produce più gas serra.
Anche
        l’ipotesi nucleare – caldeggiata a lungo dal centro destra, ma solo
        per scopi propagandistici – è stata abbandonata anche dall’ex
        Ministro Matteoli: un paese che decise vent’anni fa di non ricorrere
        al nucleare non può, nel volgere di un battito d’ali, riprendere
        quella strada.
        Considerazioni ambientali a parte (scorie, ecc), quanto tempo ci
        vorrebbe per avere una decina di centrali nucleari in Italia? Non
        esistono nemmeno più (o sono ridotte al lumicino) le facoltà
        universitarie del settore!
L’IEA[6]
        valuta la disponibilità d’Uranio nel pianeta in 40-80 anni, secondo
        il prezzo d’estrazione e di raffinazione del minerale (in aumento):
        anche se l’Italia decidesse di costruire nuove centrali – e dove?
        Con quello che succede per i termovalorizzatori, ci sarebbe un solo
        sindaco che acconsentirebbe? Dovremmo rifare il referendum? – ci
        arriveremmo probabilmente quando il nucleare diventerebbe poco attraente
        anche dal punto di vista economico.
        Il “risorgimento” nucleare è dovuto principalmente alla peculiarità
        di quel sistema, che non produce gas serra, ma è un risorgimento che ha
        le ali tarpate proprio dagli enormi ritardi accumulati dall’Italia sul
        fronte dell’energia. Ci arriveremmo troppo tardi. 
Come
        si è giunti a questa situazione?
        Le scelte energetiche italiane nascono da due momenti ben precisi: il
        dopoguerra di Enrico Mattei ed il referendum sul nucleare del 1987.
        Quando Mattei si sedette alla poltrona dell’AGIP, ereditando il
        carrozzone fascista, l’Italia era in ginocchio: fonti nazionali quasi
        inesistenti, dipendenza dall’estero pressoché totale. Mattei richiamò
        alla neonata ENI anche numerosi dirigenti che avevano subito
        l’ostracismo poiché coinvolti con il passato regime, giacché aveva
        bisogno di personale preparato. Altro che “bipartisan”!
L’obiettivo
        era quello d’iniziare a sfruttare il gas metano presente nel
        sottosuolo della pianura Padana, e ci riuscì. I volumi estratti non
        erano certo abbondanti, ma per il nulla che l’Italia possedeva erano
        pur sempre qualcosa.
        La lungimiranza di Mattei, però, fu evidente da quel momento in poi:
        forte della sua formazione di cattolico attento alle esigenze sociali,
        lanciò l’ENI alla caccia di contratti con i paesi produttori di
        petrolio e di gas. L’arma vincente? Pagava semplicemente un poco di più
        degli inglesi e degli americani. In quegli anni, 
Fu
        facile, per Mattei, introdursi in quel mercato poiché – almeno fino
        al 1956 ed ai fatti di Suez – le compagnie inglesi trattavano il
        petrolio con l’identica mentalità coloniale d’anteguerra, e gli
        americani – pur non essendo mai stati colonialisti – cercavano
        d’imparare.
        Prima d’essere ucciso, Mattei riuscì a creare una serie di contatti
        che consentirono all’Italia la fornitura energetica per i decenni a
        venire: le basi dell’approvvigionamento petrolifero italiano sono
        ancora quelle create da Mattei. L’unica, importante novità fu il
        gasdotto siberiano, che coinvolse l’Italia e l’URSS in una serie di
        collaborazioni industriali: ad esempio, lo “sbarco” della FIAT a
        Togliattigrad e la fornitura di macchine per la lavorazione del legno,
        delle quali i sovietici avevano gran bisogno, viste le enormi ricchezze
        forestali. Grazie a quegli accordi, ancora oggi l’Italia conserva
        un’ottima posizione in quel settore tecnologico: nel modenese sorgono
        moltissime aziende del settore del legno.
Il
        referendum del 1987 non doveva finire in quel modo – così pensavano i
        vertici dell’ENEL, che aveva iniziato ad investire a Caorso ed a
        Montalto di Castro per le prime due, vere[7],
        centrali nucleari italiane – ma cadde la tegola di Chernobyl, ed il
        popolo italiano disse di no.
        Nel 1987, dopo il referendum, la classe politica del tempo avrebbe
        dovuto prendere coscienza che l’Italia aveva abbandonato quella strada
        – mentre Francia, Germania e Gran Bretagna procedevano – e prendere
        provvedimenti.
        Già allora si sentiva parlare d’energie rinnovabili, ma il basso
        prezzo del petrolio – giunse a 11$/barile negli anni ’90! –
        confinava il settore in un ambito meno pressante, con pochi fondi e,
        tutto sommato, considerato quasi come un settore di ricerca pura. In
        altre parole: se son rose fioriranno, ma non perdiamoci troppo tempo.
Intorno
        al 1980, ad esempio, 
L’aerogeneratore,
        a differenza dei modelli attuali, affidava ad un complesso sistema di
        molle e contrappesi la possibilità di mantenere costante la rotazione
        al variare del vento che, quando “variava” troppo, distruggeva molle
        e contrappesi.
        Puntualmente, giungevano da Torino i tecnici dell’azienda che
        sistemavano nuove molle e contrappesi, che il vento si premuniva di
        fracassare nuovamente.
        Le strade seguite da tedeschi e danesi furono invece diverse:
        approfondirono molto – grazie alla “ricaduta” delle tecnologie
        aeronautiche – lo studio dei materiali per consentire alle pale di
        flettersi senza rompersi, ed i risultati – oggi – si vedono.
Negli
        stessi anni, però, il sistema politico italiano era già entrato in
        cortocircuito per la sciagurata gestione del debito e per i noti
        “terremoti” internazionali: non ci furono di certo orecchie attente
        al problema, e quella pessima impostazione perdura.
        Ancora nel 2004, riuscirono a cacciare Rubbia dalla presidenza dell’ENEA
        poiché, altrimenti, il solare termodinamico avrebbe seriamente corso il
        rischio di diventare una realtà.
        Vale la pena di soffermarsi qualche secondo sulle esternazioni di
        Scaroni – Presidente dell’ENI – poiché sono illuminanti. Con
        soddisfazione, affermava qualche mese or sono “che,
        per fortuna, l’Italia non aveva venti costanti e potenti come quelli
        del Mare del Nord, e quindi il sistema eolico era improponibile”.
Considerazioni
        tecnologiche a parte – l’affermazione di Scaroni ha del vero, ma
        sottende anche molte falsità – stupisce osservare che un uomo che
        s’occupa d’energia “si rallegri” perché l’Italia è
        relativamente più povera di una risorsa energetica. Non credo che
        Mattei si sarebbe “rallegrato”.
        Contemporaneamente, Enelgreenpower
        – ossia l’ENEL – affermava candidamente che la risorsa eolica era
        valutata, nel pianeta, quattro volte l’intero fabbisogno mondiale del
        1998. Nel 1990, l’Ente Americano per l’Energia sosteneva che tre
        soli stati – North Dakota, Kansas e Texas – erano in grado di
        fornire l’intero fabbisogno nazionale con il sistema eolico. Nel 2005,
        l’Università di Stanford rivedeva al rialzo quelle stime. C’è
        proprio da “rallegrarsi”.
L’impasse
        energetica italiana nasce dunque da un coacervo di fattori, che
        maturarono negli stessi anni: il referendum del 1987, la crisi politica
        dei primi anni ’90 e la contemporanea dismissione di molte aziende
        meccaniche di proprietà statale. Già, perché se desideriamo costruire
        impianti per la captazione delle energie rinnovabili, qualcuno deve pur
        costruirli!
        Non dimentichiamo che l’area anseatica è diventata leader
        dell’eolico anche per ragioni storiche: l’ultima azienda che
        produceva mulini a vento tradizionali (quelli delle cartoline) chiuse i
        battenti, in Danimarca, intorno al 1970. Vent’anni dopo, s’affermava
        la nuova industria eolica: in Germania, valutano che 250.000 persone
        lavorino nel settore delle energie rinnovabili.
Chi
        poteva (e potrebbe), in Italia, diventare attore nel nuovo settore?
        L’ENEA, ad esempio, ha praticamente terminato la fase di ricerca sul
        solare termodinamico: chi lo realizzerà? Con il ritorno di Rubbia, è
        possibile che l’impianto di Priolo Gargallo sia finalmente terminato,
        ma si tratta pur sempre di un impianto sperimentale, e gli anni passano.
        Le grandi aziende meccaniche italiane si contano sulle dita di una mano:
        FIAT, Ansaldo, Italcantieri, OTO Melara, Pignone e poco di più.
        Italsider non esiste praticamente più, l’IRI è un ricordo.
        La più importante azienda – 
Ancora
        una volta – come dopo l’Unificazione, durante il Fascismo, nel
        Dopoguerra – dobbiamo costatare la debolezza dell’apparato
        produttivo italiano. Il tessuto produttivo italiano riesce ad
        interpretare bene le nicchie di mercato – pensiamo al made
        in Italy, l’estetica – poiché la dimensione contenuta delle
        aziende è in grado di competere soltanto sulle nicchie, non sui grandi
        mercati.
        La “mano pubblica” non ha più la possibilità d’intervenire
        direttamente nella gestione industriale – non entriamo nel merito
        della contesa fra pubblico e privato, constatiamo semplicemente che così
        è – e quindi (anche per le norme europee in materia) lo Stato non può
        decidere di costruire centrali solari od eoliche.
        Possono costruirle i privati? Troppo piccoli per una simile impresa:
        potranno al massimo costruire singoli settori della “filiera” della
        nuova industria, ma non interpretare il processo produttivo dalla A alla
        Z.
Lo
        Stato potrebbe favorire – mediante la leva fiscale – consorzi
        d’aziende che lavorano su segmenti diversi della stessa “filiera”
        industriale: sarebbe un tentativo per conciliare l’originalità del
        nostro tessuto industriale – basato su tante piccole e medie imprese
        – con la necessità di gestire mercati ampi e complessi. Non
        dimentichiamo, però, che il tempo passa: i colossi internazionali
        dell’energia non aspetteranno certo l’Italia. 
Rimangono
        ENEL ed ENI – quotate in Borsa ma con una residua partecipazione dello
        Stato – che però pensano al carbone (ENEL), oppure si
        “rallegrano” se c’è poco vento (ENI).
        Nulla vieta d’installare aerogeneratori prodotti all’estero – così
        oggi vanno le cose – ma non dimentichiamo che, chi “perderà il
        treno” della nuova industria energetica, accumulerà probabilmente un
        secolo di ritardo tecnologico.
        Per il solare termodinamico, invece, siamo al parossismo: la nuova
        tecnologia è completamente italiana!
        Attualmente, l’ENEA prevede che il costo di produzione di un KW/h
        elettrico, con la nuova tecnologia, si aggiri intorno ai 6,5 euro/cent,
        inferiore al petrolio ed al gas e poco più alto del carbone (però,
        senza inquinare!)[8].
Nei
        documenti ufficiali dell’ENEA, però, traspare un concetto che vale la
        pena d’analizzare.
        La captazione solare è proficua a molte latitudini – l’Austria è
        il paese con più collettori solari (acqua calda) pro capite – ma è
        alle basse latitudine, zone tropicali ed equatoriali, che diventa molto
        conveniente.
Leggiamo
        cosa afferma l’ENEA nel suo documento ufficiale sul solare
        termodinamico (csp.pdf): 
        “Come si è visto in precedenza, per gli impianti solari a
        concentrazione il grosso del mercato potenziale, più prossimo
        all’Italia, si trova nei Paesi a sud e a sud-est del Mediterraneo,
        ovvero il Nord-Africa e il Medio Oriente. La presenza in questo ambito
        geografico di vaste aree ad alto irraggiamento diretto e con scarso
        valore commerciale (non essendovi praticabile economicamente né
        l’agricoltura né la pastorizia) offre la possibilità di produrvi
        energia di origine solare a basso costo.”
Senza
        voler apparire presuntuoso, faccio notare che già lo affermavo nel
        2003:
        “La principale ragione che ha condotto a descrivere come non economico
        il sistema fotovoltaico è che tutte le analisi compiute, in Europa e
        negli Stati Uniti, sono state attuate considerando solo le alte
        latitudini, dove la radiazione solare annua è insufficiente per rendere
        questo sistema competitivo[9]”
Io
        riferivo l’analisi al sistema fotovoltaico, ma la consistenza della
        radiazione è la stessa: l’ENEA – se stima il costo di produzione di
        1 KW/h a 6,5 euro/cent nelle regioni meridionali europee – scende,
        nello stesso documento, a 4,5 per le aree tropicali ed equatoriali.
        Perché? Poiché la radiazione solare, pur essendo consistente al
        solstizio d’estate alle nostre latitudini, scende a quello invernale
        ad 1/6 circa (media) rispetto alle aree equatoriali. In altre parole,
        riceviamo molta energia in estate, ma pochissima d’inverno: fra i
        Tropici e l’Equatore, invece, i valori sono più costanti tutto
        l’anno; inoltre, la media annua (la quantità totale d’energia) è
        sensibilmente a loro favore. Difatti, l’ENEA stima una diminuzione del
        costo del singolo KW/h di quasi un terzo, se gli impianti fossero
        situati nelle aree sahariane e sub-sahariane.
Tutto
        ciò ci riporta alla domanda iniziale, ovvero: se Scaroni fosse Mattei…
        Se Scaroni fosse Mattei, ritornerebbe – quasi fosse la sua
        reincarnazione – in Africa: questa volta per stendere accordi per le
        forniture energetiche utilizzando la nuova tecnologia, tutta italiana,
        che ci farebbe tornare fra le nazioni che sfornano tecnologia.
        Qualcuno potrebbe domandarsi: perché non attuare la captazione in
        Italia? Domanda legittima ed appropriata.
Per
        oggettive situazioni geografiche, la sola Sicilia – in Italia –
        sarebbe nelle condizioni più favorevoli per avviare il processo:
        dunque, si potrebbe fare. Ciò non significa che anche altre aree
        potrebbero ricevere la nuova tecnologia: semplicemente, più si sale
        verso Nord, meno diventa conveniente.
        Pur con costi superiori (6,5 euro/cent KW/h) potremmo avviare i processi
        in Sicilia: oltretutto, sarebbe una buona “palestra” prima
        d’esportare la tecnologia in esame. Quanto – di quei 45 miliardi di
        euro – potremmo risparmiare realizzando le centrali in Sicilia?
Produrre
        il 10-20% dell’energia consumata con il sistema termodinamico non è
        assolutamente una chimera: sarebbe come mettere insieme un paio di
        “tesoretti” ogni anno senza dover ricorrere alle tasse.
        Inoltre, progrediremmo nella fase d’industrializzazione del progetto
        (magari migliorandolo in corso d’opera, come spesso avviene) e ci
        sottrarremmo – almeno un poco – ai ricatti energetici, ai quali
        siamo troppo esposti.
Di
        più sarebbe possibile fare, ma ci esporremmo ad altri rischi.
        Siamo storicamente legati ai paesi della sponda Sud del Mediterraneo: già
        i Romani commerciavano con quelle popolazioni per le spezie, e le
        “spezie” odierne – se riflettiamo sulla valenza del settore
        petrolchimico – sono il petrolio ed il gas.
        Temo un’Europa coperta di pannelli solari, di varia natura, e d’aerogeneratori,
        che fosse in grado di coprire l’intero fabbisogno con la produzione in
        loco: la temo per vari motivi.
        Grandi e popolose nazioni – pensiamo all’Algeria – sopravvivono
        solo grazie alle esportazioni energetiche: quale sarebbe la portata dei
        flussi migratori, qualora venissero a mancare quegli introiti?
        Da sempre, l’Europa è produttrice di beni e l’Africa ed il Medio
        Oriente sono fornitori di materie prime: se il metodo fosse quello di
        Mattei – ossia non la rapina, ma il commercio – le due realtà
        potrebbero convivere in simbiosi, e dunque in pace.
Sull’altro
        versante, non possiamo dimenticare che chi lo tentò – Enrico Mattei
        – fu sacrificato sull’altare della pura e semplice convenienza
        economica che negli anni, grazie a strumenti sempre più sofisticati –
        il Fondo Monetario Internazionale, 
        Per questa ragione – di là delle personali convinzioni, che lo vedono
        poco propenso a tentare nuove strade – Scaroni non può diventare
        Mattei: correrebbe gli stessi rischi del primo presidente dell’ENI.
        Peccato che, questa impasse, finirà per condurci alla rovina.
        La palla torna dunque nuovamente nelle mani del sistema politico, il
        quale s’interroga sui massimi sistemi, ossia se il comandante della
        Guardia di Finanza debba essere un uomo normale o speciale.
        Politici “speciali”, come i nostri, non sono probabilmente in grado
        d’imprimere una positiva accelerazione ai rapporti internazionali, per
        tracciare un nuovo profilo d’approvvigionamento energetico fra le due
        sponde del Mediterraneo. Smettiamola d’inviare in giro soltanto
        soldati: proviamo ad inviare gente che sappia trattare.
Avremmo
        un disperato bisogno di “normali” politici – di destra e di
        sinistra – ma di politici capaci.
http://www.macrolibrarsi.it/libri/__mutamenti_climatici.php?id_wish=10678
        
        
Carlo Bertani articoli@carlobertani.it www.carlobertani.it
[1]
            Fonte Televideo 11/3/2007
            [2]
            
            [3]
            Si tratta di un valore medio, giacché differenti tipi di petrolio
            hanno diversa densità.
            [4]
            Al cambio di 1,35 dollari per un euro.
            [5]
            La produzione italiana d’energia varia secondo gli anni: tale
            variazione è dovuta principalmente alla piovosità, giacché la
            fonte idroelettrica è la principale, mentre il geotermico e le
            rinnovabili forniscono circa l’1% ciascuna.
            [6]
            IEA: International Energy Agency.
            [7]
            Le precedenti realizzazioni (Saluggia, ecc.) erano poco di più che
            impianti sperimentali.
            [8]
            Fonte: ENEA, csf.pdf.
            [9]
            Carlo Bertani – Energia,
            natura e civiltà: un futuro possibile? – Giunti – 2003.