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Capitolo 4

Il terrore intoccabile
Dal libro “Perché ci odiano” di Paolo Barnard, ed. BUR
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«Adesso anche gli ebrei si sono comportati come nazisti e tutta la mia anima ne è scossa ... Ovviamente dobbiamo nascondere al pubblico questi fatti. Ma devono essere indagati.»(1)
«Per reprimere la resistenza palestinese, un ufficiale israeliano di alto rango ha sollecitato l'esercito"... ad analizzare e a far proprie le lezioni su come l'armata tedesca combatté nel Ghetto di Varsavia». A giudicare dal recente massacro dell'esercito di Israele nella Cisgiordania - ha colpito le ambulanze e i medici palestinesi, ha ucciso dei bambini palestinesi "per sport" (scritto da Gris Hedges del "New York Times”), ha rastrellato, ammanettato e incappucciato tutti gli uomini palestinesi dai 14 ai 45 anni, cui sono stati stampati i numeri di riconoscimento sulle braccia, ha torturato indiscriminatamente, ha negato l'acqua, l'elettricità, il cibo e l'assistenza medica ai civili palestinesi, ha usato dei palestinesi come scudi umani e ha abbattuto le loro case con gli abitanti ancora all'interno - sembra che l'esercito di Israele abbia seguito i 'suggerimenti' di quell'ufficiale. Ma se gli israeliani non voglio essere accusati di essere come i nazisti, devono semplicemente smettere di comportarsi da nazisti.»(2)

Cinquantaquattro anni separano queste due dichiarazioni; due ebrei eminenti ne rivendicano la paternità: il ministro israeliano dell'Agricoltura Aharon Cizling e l'intellettuale ebreo Norman G. Finkelstein. Cizling nel 1948. Finkelstein nel 2002.
Si sta parlando di cinquantaquattro anni di terrorismo israeliano in Palestina, che in realtà sono assai di più come dimostrerò di seguito, e che mai sono stati riconosciuti dalle democrazie occidentali, né condannati, tanto meno puniti. Al contrario: Israele è oggi accolto a braccia aperte e con il massimo dei titoli nell'esclusiva cerchia delle giuste nazioni in prima linea nella Guerra al Terrorismo, e l'immensità dei suoi crimini perpetrati ai danni del popolo palestinese finisce così sotto al tappeto della Storia, «in accordo con il principio generale secondo cui la nostra violenza e quella impiegata dai nostri amici non sono mai terrorismo, per definizione»(3) Ma non solo: Israele, il caposcuola del terrore su larga scala in Palestina cui gli arabi dei Territori Occupati hanno risposto dopo decenni di vessazioni e di ingiustizie plateali con un terrorismo in quantità sicuramente minore, è riuscito nella spettacolare impresa di emergere al cospetto del giudizio storico occidentale come l'incolpevole vittima del fanatismo sanguinario della sua incivile controparte, col plauso garantito dei nostri maggiori leader politici e dei grandi media.

La manifesta ipocrisia che ha permesso questo stato di cose sarebbe sotto gli occhi di tutti se solo ci permettessero di conoscere i fatti e di poter quindi giudicare con le nostre menti e con i nostri cuori. Ma non ci è concesso, poiché anche in questo caso è in gioco una narrativa dominante in larga parte falsa, che ci è stata raccontata con tenacia, e così a lungo, da divenire inattaccabile, ovvero la verità acquisita che occulta ogni altra evidenza dei fatti come sono realmente accaduti e come accadono in quelle terre.

In essa, il piccolo e democratico Stato di Israele nasce per dare rifugio agli ebrei perseguitati nel mondo, secondo le legittime aspirazioni sia laiche che religiose dei suoi padri fondatori. Lo Stato ebraico mette le sue fragili radici in una terra musulmana implacabilmente ostile, che lo ha da subito avversato e minacciato e dove sopravvive da quasi sessant'anni assediato da regimi arabi mostruosi retti da mostruosi dittatori perennemente intenti a pianificare la sua distruzione. Questo stato di cose ha costretto Israele a una perenne difesa militare, che dopo una serie di aggressioni su larga scala subite ma sempre vittoriosamente respinte deve oggi fare i conti con una infame guerriglia araba di eccezionale viltà, rappresentata dal fenomeno suicida dei terroristi palestinesi dei gruppi islamici fondamentalisti. E così il pacifico popolo israeliano vive un'esistenza costellata di orrori e di spargimenti di sangue voluti dall'inspiegabile crudeltà dei palestinesi radicali, cui deve, per legittima difesa, rispondere con ogni mezzo, fino al più estremi. 1 suoi tentativi di ottenere una giusta pace basata sul suo sacrosanto diritto di esistere sono stati immancabilmente frustrati dall'inguaribile vocazione alla violenza degli arabi, subdolamente aizzata e sfruttata dai loro corrotti e inaffidabili rappresentanti. Per gli ebrei d'Israele si perpetua così un destino impietoso, che da tempi immemorabili li ha visti lottare in un mondo che quasi sempre li perseguita, e la Palestina non fa eccezione.

Questa è la narrativa dominante dove come sempre si riconoscono alcune verità, perdute però nella contraffazione generale dei fatti.
Tutti conoscono le colpe e i crimini di cui si è macchiata la parte araba, né io ho intenzione di nasconderli o sottovalutarli. In questa sede, però, vorrei per una volta trattare del carico di colpe o di crimini dello Stato d'Israele, e la straordinaria mistificazione che li nasconde a gran parte di noi.
Prima di dare sostanza a queste affermazioni con le autorevoli prove documentali e le testimonianze storiche che troverete alla fine di questo capitolo (pag. 254 e seg.), è bene chiarire con quali mezzi la sopraccitata mistificazione è stata imposta alle opinioni pubbliche mondiali, e a quelle occidentali in particolare. Infatti esistono due distinti meccanismi che impediscono alla realtà del conflitto israelo-palestinese di essere giustamente divulgata, e sono i due bavagli con cui i leader israeliani, i loro rappresentanti diplomatici in tutto il mondo, i simpatizzanti d'Israele e la maggioranza dei politici, dei commentatori e degli intellettuali conservatori di norma zittiscono chiunque osi criticare pubblicamente le condotte dello Stato ebraico nei Territori Occupati, o altri aspetti controversi della storia e delle politiche di quel Paese.

Il primo bavaglio è l'impiego a tutto campo dei gruppi di pressione ebraici, le cosiddette lobby, per dirottare e falsificare il dibattito politico sul Medioriente (negli USA in primo luogo); il secondo è l'accusa di antisemitismo che viene sempre lanciata, o meglio sbattuta in faccia ai critici d'Israele.
Nel capitolo 3 di questo libro ho già anticipato una parte del materiale che forma l'insieme dei capi d'imputazione di cui Israele dovrebbe rispondere. Qui l'approfondimento, e inizio proprio dall'operato delle lobby ebraiche.
Per far luce su questo punto è necessario analizzarlo nel contesto americano, poiché è innegabile che l'orientamento degli Stati Uniti nei confronti di Israele e della crisi in Medioriente sia ciò che fissa le coordinate cui tutti gli altri governi occidentali, incluso il nostro, sono tenuti a conformarsi, con poche ed effimere differenze più cosmetiche che di sostanza. Inoltre l'America, in virtù della straordinaria dipendenza di Israele dagli aiuti economici e militari di Washington, è la potenza nelle cui mani giacciono i destini del processo di pace, e questo ne cementifica la centralità nel discorso.

Ma negli Stati Uniti oggi un dibattito franco sulla questione ai livelli che contano, e cioè sui grandi media e in parlamento, è del tutto impossibile. Infatti l'ordine di scuderia tassativo ai vertici di quel Paese è: i palestinesi stanno alla fonte della violenza e a essi tocca cessarne l'uso prima di ogni discussione su qualsiasi cosa; le vittime sono gli israeliani, martirizzati in patria nonostante la loro incessante ricerca della pace, full stop, che in inglese sta a significare «è così e non se ne discute».
Non per nulla anche in occasione della recente vittoria elettorale di Hamas nelle elezioni parlamentari palestinesi (25 gennaio 2006) la parola d'ordine lanciata dal Dipartimento di Stato americano e rimbalzata ovunque, dall'ONU ai parlamenti europei e nei mass media, è stata «First, Hamas must renounce violence» («Per prima cosa Hamas deve rinunciare all'uso della violenza»), e di certo nessuno a Washington né altrove in Occidente avrebbe osato sussurrare neppure di sfuggita che anche Israele deve per prima cosa smettere di massacrare e di opprimere i civili palestinesi.

E questa non è una caricaturizzazione né un'estremizzazione della realtà americana. Anzi, spesso la linea è anche più intransigente. Nella primavera del 2002, proprio mentre l'esercito di Tel Aviv invadeva di nuovo i Territori Occupati con l'assedio di Jenin a fare da apogeo della violenza contro la popolazione civile araba, un gruppo di eminenti sostenitori americani d'Israele teneva una conferenza a Washington dove a rappresentare l'Amministrazione di George W. Bush fu invitato l'allora viceministro della Difesa Paul Wolfowítz, noto neoconservatore di destra e aperto sostenitore della nazione ebraica. Lo scomparso Edward Said, professore di Inglese e di Letteratura Comparata alla Columbia University di New York e uno degli intellettuali americani più rispettati del XX secolo, ha raccontato un particolare di quell'evento con le seguenti parole: «Wolfowitz fece quello che tutti gli altri avevano fatto - esaltò Israele e gli offrì il suo totale e incondizionato appoggio - ma inaspettatamente durante la sua relazione fece un fugace riferimento alla ‘sofferenza dei palestinesi’. A causa di quella frase fu fischiato così ferocemente e così a lungo che non poté terminare il suo discorso, abbandonando il podio nella vergogna».(4)

Stiamo parlando di uno dei politici più potenti del terzo millennio, di un uomo con un accesso diretto alla Casa Bianca e che molti accreditano come l'eminenza grigia dietro ogni atto dello stesso presidente degli Stati Uniti, prima, durante e dopo la sua ascesa al potere. Eppure gli bastò sgarrare di tre sole parole nel suo asservimento allo Stato d'Israele per essere umiliato in pubblico e senza timori da chi, evidentemente, crede di contare più di lui nell'America di oggi.

AIPAC (American Israel Public Affairs Committee), ZOA (Zionist Organization of America), AFSI (Americans for a Safe Israel), CPMAJO (Conference of Presidents of Major American Jewish Organisatios), INEP (Institute for Near East Policy), JDL (Jewish Defense League), B'nai Brith, ADL (Anti Defamation League), AJC (American Jewish Committee), Haddasah sono gli acronimi e i nomi di alcune di quelle lobby, che a noi risultano pressoché sconosciute ma che nei corridoi del Congresso americano possono creare seri grattacapi a senatori e deputati indistintamente. Un fronte compatto che secondo lo stesso Edward Said «può distruggere una carriera politica staccando un assegno», in riferimento alle generose donazioni che quei gruppi elargiscono ai due maggiori partiti d'oltreoceano.

Come se non bastasse, lo schieramento lobbistico pro Israele è stato oggi rafforzato oltre ogni immaginazione dallo sposalizio con un altro fronte di potere assai in auge in America, quello dei gruppi di cristiani fondamentalisti vicini al presidente George W. Bush e che controllano i voti dalla cosiddetta Bible Belt (cintura della Bibbia), e cioè la fascia di Stati americani del centro e del sud del Paese (circa il 18% dell'elettorato totale). Ed è così che negli USA è possibile oggi sentir parlare di Cristian Zionists, sionisti cristiani, un ibrido che stride a un orecchio anche solo mediamente colto e che ci riserva il meglio di quel crogiolo di assurdità e bizzarrie che talvolta è la società americana. Infatti quella alleanza si regge solidamente e apertamente proprio su ciò che in teoria dovrebbe renderla impossibile.

La teologia dei cristiani fondamentalisti d'America professa e attende la seconda venuta del Cristo e la conseguente fine del mondo, secondo una interpretazione della Bibbia resa ímmensamente popolare dai libri di un certo reverendo Tim LaHaye (che nel 2001 hanno venduto più di John Grisham). Ma quell'evento sarà possibile, secondo loro, solo quando gli ebrei avranno stabilito uno Stato ebraico su tutta la Palestina , e cioè ben oltre gli odierni confini di Israele. Ecco dunque la ragione per cui quei gruppi di estremisti della Bibbia lavorano alacremente fianco a fianco con le lobby ebraiche americane per difendere, colonizzare ed espandere con ogni mezzo le aree dei Territori Occupati già in mano a Tel Aviv, contraddicendo ogni mediazione di pace e ovviamente negando ogni possibilità all'esistenza di uno Stato palestinese. Ma qui arriva il guizzo di follia su cui tutto ciò si regge. Infatti, sempre secondo la teologia cristiana fondamentalista di cui sopra, esiste una seconda condizione per la venuta di Cristo, a dir poco assai più problematica della prima: e cioè che tutti gli ebrei che oggi incitano alla conquista della Palestina dovranno in ultimo convertirsi al cristianesimo, pena l’annientamento fra le fiamme di un olocausto infernale. Niente meno.

E gli ebrei americani in tutto questo? Senza dubbio ne sono consapevoli, e sorvolano su quel credo sostanzialmente antisemita perché, come disse tempo fa uno dei più pungenti commentatori israeliani antagonisti, «semplicemente se ne fregano, a patto che oggi appoggino Israele».

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Note
1) Trascrizione della riunione di Gabinetto israeliana del 17 novembre 1948, dagli archivi del Kibbutz Meuhad, citata da David McDowall, Palestine and Israel, I.B. Tauris & Co Ltd, 1989, p. 195.
2) Norman G. Finkelstein, First tbe Carrot, Then the Stick: bebind tbe carnage in Palestine , 14 aprile 2002 & «Ha'aretz», 25 gennaio 2002, 1 febbraio 2002.
3) Edward S. Herman, The Real Terror Network, South End Press, Boston 1982.
4) Crisis For American Jews, by Edward Said, Al Haram, 17 maggio 2002.
5) Uri Avenery, leader di Gush Shalom, ONG pacifista israeliana, in Una dichiarazione riportata dal quotidiano inglese «The Independent» il 13 luglio 2002.

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