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Le tre spade di Damocle del petrolio
Ovvero: quanto potrà reggere l’economia mondiale all’aumento del prezzo del petrolio?
Di Carlo Bertani per Disinformazione.it

Siamo ormai abituati ad ascoltare il consueto ritornello sull’aumento – ormai costante dal 2000 – del prezzo del greggio: l’Organetto Nazionale ci mostra le solite stazioni di rifornimento, lo stesso benzinaio, le consuete banconote con le quali paghiamo il carburante. Anche il commento è sempre lo stesso: la benzina aumenterà di tot, il gasolio di…
A poco a poco ci abituiamo alla maledizione degli Dei, allo strapotere degli emiri in caffettano: «Spendi e spandi, spandi e spendi effendi!» cantava in anni lontani Rino Gaetano, tutta colpa del Feisal di turno.
   
Ciò che non approfondiscono è il nesso fra l’aumento del prezzo dell’energia (del quale il costo della benzina alla pompa è – tutto sommato – un aspetto secondario) e la crescita economica o, meglio, lo spazio che ci separa dallo spettro della profonda recessione economica.
   
Qualche volta azzardano fumosi commenti: « La BCE lancia allarmi per la crescita economica…l’economia potrebbe ristagnare per l’alto costo del greggio…i consumi delle famiglie potrebbero contrarsi di tot…». Ciò che non raccontano è che c’è un limite alla crescita del prezzo del greggio, una soglia – oltrepassata la quale – s’inizia a rischiare grosso.
   
Anzitutto dobbiamo chiarire che l’attuale prezzo del greggio non è il più alto che mai sia stato raggiunto: in termini puramente nominali il petrolio non è mai arrivato a 70$ il barile, ma dobbiamo anche tener conto del valore della moneta di riferimento, ovvero del dollaro.

La prima crisi petrolifera avvenne nei “terribili” anni ’70, quando il greggio passò in sette anni – dal 1973 al 1980 – da 20 ad 80 dollari il barile (esprimendo il prezzo con l’attuale valore della moneta americana). Il picco massimo raggiunto, a quel tempo, fu di 35$ il barile, ma un dollaro del 1980 aveva pressappoco lo stesso valore (inteso come quantità di beni e servizi acquistabili) di 2,2 dollari attuali.
    La benzina, che nel 1972 costava 163 lire il litro, passò nel 1980 a 1.000, con un aumento del 600%! Pur considerando che l’inflazione in quegli anni marciava a due cifre, si trattò di una rivoluzione (ahimè, dolorosa) giacché gli italiani smisero d’acquistare vetture veloci e spaziose ed iniziarono a tener d’occhio con attenzione la lancetta del carburante. Prima del 1970, nessuno si sognava di fare discussioni sul consumo delle auto: i commenti – nei bar – erano centrati sui cavalli di potenza e sulla velocità che le famose “coupè” dell’epoca potevano raggiungere.
In pochi anni il tenore dei discorsi cambiò radicalmente, ed il leitmotiv divenne: «Quanto riesci a fare con un litro?» Sic transit gloria mundi.
   
Qualora il prezzo del greggio raggiungesse i fatidici 80 dollari il barile, saremmo tornati alla situazione del 1980, ma questo varrebbe soltanto per i prolissi discorsi al bar, perché – nel frattempo – il pianeta ha mutato pelle. Purtroppo, l’informazione ufficiale non va oltre il livello dei discorsi “da bar”, e le compagnie petrolifere non tengono minimamente conto di cosa ci raccontiamo mentre beviamo un caffè.
   
Anzitutto dobbiamo comprendere le ragioni che hanno portato – dal 1995 – il costo del barile di greggio da 11$ a 70$: notiamo che l’aumento è dello stesso ordine di grandezza di quello degli anni ’70, ovvero circa il 600%.
Anche correggendo i valori con il deprezzamento del dollaro, che sull’euro è di circa il 25%, il costo del barile è aumentato parecchio: praticamente quadruplicato. Le ragioni?

I motivi sono sostanzialmente tre:
   
Il progressivo esaurirsi dei giacimenti. Non siamo ancora all’estinzione, ma ci stiamo avvicinando. Le previsioni indicano che – con gli attuali consumi – abbiamo petrolio per circa 40 anni, gas per 60 e carbone per 200[1]. Vogliamo – noi stessi – mettervi in guardia: troverete altre cifre che si discostano da questa ipotesi, giacché tengono conto delle riserve degli scisti bituminosi, ovvero di “sabbie” intrise di petrolio; il problema è che la quantità d’energia necessaria per l’estrazione del combustibile da queste fonti supera il potere calorifico del prodotto estratto[2], una vera e propria assurdità scientifica. Alcuni analisti affermano che, con il progressivo aumento del prezzo del barile, l’estrazione diventerà economica, ma per questa ed altre ipotesi (il metano imprigionato sotto agli alti fondali marini, ad esempio) si tratta quasi di fantascienza, giacché sull’ipotesi di “ritagliare” nuova energia da fonti marginali ed incerte pende la spada di Damocle del punto successivo.
   
Il consumo di energia – per aree geografiche – è completamente diverso rispetto al 1980. A quel tempo avevano alti consumi energetici solo l’Europa, gli USA, l’URSS e pochi altri. Oggi, si sono aggiunti Cina, India, Brasile ed altri s’accodano. I 28 milioni d’operai tessili cinesi che producono la quasi totalità dei tessuti che ormai si consumano sul pianeta – nel 1980 – non esistevano. Delle grandi software-house indiane, che oggi producono a getto continuo nuovi programmi, nel 1980 era addirittura impossibile immaginarne la futura esistenza. A Belo Horizonte si fabbricano auto, in Camerun si tesse a tutto vapore, in Vietnam si fabbricano (per ora) prodotti di basso livello tecnologico, ma in gran quantità. Tutto ciò richiede energia, tanta energia, un mare d’energia. Nella zona di Canton mancano tuttora all’appello 500 MegaWatt giornalieri, e le autorità cinesi hanno programmato una sorta di “distacco” a rotazione delle industrie per far fronte alla carenza dell’offerta. Si potrà obiettare che le aziende cinesi consumano sì energia, ma che la stessa energia non è più necessaria in Europa e negli USA, il che è verissimo. Dimentichiamo, però, che s’utilizza energia sia per produrre che per consumare, ed i consumi energetici occidentali non sono diminuiti, anzi, negli USA il consumo di petrolio è in costante aumento mentre in Europa è abbastanza stabile[3]. La richiesta d’energia – a livello globale – è notevolmente aumentata anche grazie ai nuovi “succhiasangue” energetici entrati in commercio, in primis i climatizzatori. Se, però, ci sono ancora petrolio e gas per almeno mezzo secolo (tralasciamo il carbone, giacché il suo uso presenta numerosi inconvenienti[4]), perché non incrementare la produzione per far fronte ai bisogni? Poiché cala la seconda spada di Damocle, ovvero il terzo punto.

Per estrarre e trasportare petrolio non basta fare un buco nella sabbia: ci vogliono investimenti di miliardi di dollari, ed esser certi che a nessun guerrigliero, terrorista o dittatore passi per la testa di gettare il classico cerino. La vicenda irachena racconta proprio questa difficoltà: nonostante la “fame” di petrolio, nonostante che l’Iraq sia al secondo posto nel mondo per riserve accertate (qualcuno sostiene al primo, ma ha poca importanza, visto che l’altro concorrente è la confinante – e sempre più instabile – Arabia Saudita), nonostante centomila soldati americani si “prodighino” per “pacificare” il paese, nessuno investe se non è certo di rivedere – l’indomani – l’oleodotto, il gasdotto, il pozzo d’estrazione. E nei paesi dove non ci sono guerre e tensioni? Le compagnie petrolifere si trovano ad un bivio: continuare ad investire nel petrolio, oppure compiere il “salto” e passare al vento, al sole, all’idrogeno? Shell ha acquistato il settore solare di Siemens, una sorta di “assicurazione” per il futuro, ma è un futuro nel quale – se non s’investe – c’è poco da sperare. Investire nel petrolio? Certo, ma il ritmo d’incremento nella scoperta di nuovi giacimenti è passato dal 45% del decennio 1981-1991 al 5% del decennio 1991-2001[5]. Attualmente, ogni dieci anni s’incrementano di un misero 5% le riserve censite, mentre i consumi salgono del 13% circa a decennio[6]. In altre parole, stiamo consumando più petrolio di quanto i geologi riescano a trovarne nelle profondità della terra ancora inesplorate. Sulla remunerazione degli investimenti nelle infrastrutture petrolifere – un settore economico in fase terminale – pende quindi la terza spada di Damocle, quella dell’esaurimento delle riserve accertate che abbiamo già esplicitato al primo punto, ed il cerchio si chiude.

Il prezzo del greggio sale quindi per una semplicissima ragione – che ha tre aspetti – ma che sostanzialmente significa: l’era dei combustibili fossili sta finendo.
Vivere in periodi di basso impero non è il non plus ultra dei desideri: i Romani sopravvissero almeno tre secoli prima del tracollo, gli Arabi quasi mezzo millennio, ma non fu certo un gran campare. Tuttavia, ci dobbiamo abituare alla progressiva erosione del “beau vivre” del ‘900, perché ogni rivoluzione, ogni grande mutamento necessita di tempo per concretizzarsi, ed durante questo “tempo” nascono, vivono e muoiono miliardi d’esseri umani: noi.
   
Tutti sanno che il futuro dell’energia si chiama sole e vento, ma da questo fulgido futuro siamo ancora distanti; è pur vero che – se ben gestita – la transizione potrebbe essere meno traumatica, ma voltiamo il capo verso Oriente ed osserviamo qual è il tema scelto dal più potente paese del pianeta per “governare” la crisi: la guerra.
   
Un bel sogno potrebbe condurci ad immaginare una tranquilla transizione dal mondo dei fossili alle energie naturali, gestito tramite l’ONU dalle migliori menti del pianeta: scienziati, sociologi, politici di razza.
   
Svegliamoci dal sogno, ed osserviamo chi è l’uomo più potente del pianeta e chi sono i suoi amici: per risolvere il problema degli incendi nelle foreste propone di tagliarle, non gliene frega un accidente se l’aumento dell’effetto serra scatena l’energia devastante delle tempeste tropicali, per mascherare il tragico fallimento dei soccorsi a New Orleans chiede più poteri per l’esercito, ancor più stato di polizia.

I suoi amici si chiamano Musharraf, che governa con la violenza dei servizi segreti come Saddam Hussein, un pallido ed insignificante Blair – smunta matrona di un impero che fu – ed un patetico Berlusconi, che afferma che l’Italia è ricca perché tutti lavorano in nero ed hanno il telefonino. Questi sono gli attori della vicenda, coloro che dovrebbero condurre “con saggezza” la transizione. Sveglia.
    In questo coro di violenza e stupidaggini ci sono, per fortuna, anche delle voci dissonanti: la più importante è senza dubbio la Germania. Tagliata fuori dal gran circo petrolifero dopo la sconfitta nella prima guerra mondiale (e la perdita delle colonie), Berlino ha fatto di necessità virtù, lanciandosi per prima nella ricerca sulle fonti rinnovabili.
   
I risultati sono rimarchevoli: ad oggi, la potenza installata in Germania sui soli aerogeneratori è di circa 14.000 MW, pari a sette centrali termoelettriche come quella di Montalto di Castro. La Spagna segue a ruota, ed alcune aree del paese (Murcia, ad esempio) sono diventate autosufficienti grazie al vento ed al sole.
   
L’Unione Europea segue con attenzione lo sviluppo delle energie rinnovabili ed ha proposto l’obiettivo di raggiungere nel 2010 la produzione con fonti rinnovabili del 12% dell’energia consumata nell’UE, in particolare il 22% dell’energia elettrica[7].
L’obiettivo è ambizioso, giacché si partì – negli anni ’90 – praticamente da zero. Può, l’incremento delle energie rinnovabili, salvare le economie occidentali?

L’effetto sarà benefico, ma è inutile illudersi: il 12% nel 2010 significa – sull’altro piatto della bilancia – l’88% con fonti non rinnovabili: ricordiamo che anche il nucleare è una fonte non rinnovabile, e le stime sulla quantità d’Uranio disponibile spaziano in una “forbice” di 50-100 anni, secondo le fonti.
   
Esistono molti studi, di fonte francese, tedesca e statunitense, i quali provano che è possibile raggiungere la completa autosufficienza energetica con fonti rinnovabili. Uno di essi[8], ad esempio, sostiene che la Germania potrebbe raggiungere l’autosufficienza energetica con le attuali tecnologie: il problema è il tempo che abbiamo a disposizione per costruire nuovi impianti, che non può non tener conto degli aumenti di prezzo dei fossili, perché il mondo delle energie rinnovabili – il nostro futuro – è nato e si svilupperà ancora sotto il regno dei combustibili fossili.
   
In altre parole, ogni aumento del petrolio genera contrazione degli investimenti, e fra gli investimenti ci sono anche quelli destinati alle energie rinnovabili.
In definitiva, ogni dollaro d’aumento del prezzo del greggio, quanto PIL erode alle economie occidentali? Ogni dollaro d’aumento del prezzo del greggio provoca una crescita del mercato mondiale dell’energia di circa 57 miliardi di dollari, giacché l’aumento del petrolio trascina inevitabilmente all’insù gli altri prezzi: con modalità e tempi diversi, ma chiunque vende qualcosa che può essere trasformato in energia tenderà a vendere appena un poco sotto al prezzo del barile di petrolio.

Se, con il prezzo del greggio a 20 dollari il barile, il mercato mondiale dell’energia ammontava approssimativamente a 1.150 miliardi di dollari, con gli attuali 70$ supera i 4.000: tre volte il PIL italiano!
   
Questi dati, necessari per comprendere almeno l’ordine di grandezza nel quale ci stiamo muovendo, sono ancora insufficienti per rispondere al quesito: quanto può reggere l’economia occidentale all’aumento del petrolio? E’ del tutto evidente che dobbiamo raffinare l’analisi.
   
Per conoscere il futuro guarda al passato: è quel che faremo, andando a vedere cosa prevedevano alcuni accreditati analisti negli anni scorsi e confrontandolo con la realtà odierna. Inoltre, bisognerà anche osservare se gli scenari esposti sono coerenti: c’è da divertirsi.
   
Il “Corriere della Sera” del 21 agosto 2004 rassicurava: il prezzo del barile non sarebbe riuscito a rimanere a lungo a 50 dollari…

Gli economisti: normalità a fine anno
Alcuni economisti, come Ian Stewart di Merrill Lynch, sostengono che si tratta di allarmi esagerati. «È molto improbabile - dice - che i prezzi del petrolio persistano a questo livello, credo che tra sei mesi saranno scesi». Ma altri non concordano.
   
Stephen Roach di Morgan Stanley, per esempio, dice che se il barile resta a 50 dollari per parecchi mesi, «finiamo nella situazione di pieno shock petrolifero già vissuta in passato», qualcosa che porta alla recessione. Lo stesso segretario al Tesoro americano, John Snow, sostiene che i prezzi alti «agiscono come una tassa, tolgono denaro dalle tasche della gente e delle imprese». 
“Toppato” in pieno: probabilmente, alla Merrill Lynch non hanno meditato approfonditamente le tre spade di Damocle e la loro interdipendenza.
   
Il quotidiano “ La Repubblica ”, invece – poco prima dello scoppio delle ostilità in Iraq – citò un rapporto della Commissione Europea del 13 febbraio 2003:
E dunque, scenario numero uno: guerra rapidissima in febbraio, greggio a 50 dollari ma solo per due mesi, 0,1% di crescita in meno, massimo 0,2% in più d'inflazione. Da metterci la firma. Scenario numero due: guerra breve, il prezzo del barile vola fino a 70 dollari, (39 la media annua), meno 0,4% di pil, più 0,5 d'inflazione. Già va meno bene. Scenario numero tre: guerra difficile, il greggio si mantiene intorno a quota 35-40 dollari, l'impatto sulla crescita è di 0,7 punti, quello sui prezzi dello 0,4. Non c'è da stare allegri.
Ma nello scenario numero quattro, con una guerra evidentemente sfiancante, duratura, che magari va pure oltre i confini dell'Iraq, c'è da aver paura: shock petrolifero inevitabile, ma anche caduta della fiducia, collasso delle Borse, fragilità delle imprese, squilibri nei conti Usa, volatilità del cambio, tensioni politiche. Significa stagnazione o recessione, vuole dire che il Pil di Eurolandia può ridursi anche dell'1,4%. Per intendersi, quest'anno è prevista una crescita dell'1,8%: non resterebbe quasi nulla. Cosa fare, allora? Per ridurre i tassi, non c'è tanto spazio. Meglio azioni coordinate tra le autorità monetarie, come avvenne l'11 settembre. Di sicuro, vanno salvaguardati gli accordi commerciali. Quanto ai bilanci pubblici, la commissione ricorda che in caso di pesante contrazione dell'economia il deficit-pil può anche salire oltre il 3%.

Praticamente perfetto. Lo scenario numero quattro, ovvero alta instabilità nell’area, prevedeva che il PIL di Eurolandia si riducesse dell’1,4%: risultato raggiunto! L’Italia crescerà nel 2005 di pochi decimi, l’Olanda dello 0,4, Francia e Germania intorno all’1%. Quest’anno, il rapporto deficit/PIL italiano supererà la soglia del 3%: previsione rispettata.
Con il prezzo medio del greggio a 39 dollari si prevedeva un calo dello 0,4% ed uno 0,5% in più d’inflazione: oggi il costo del barile è mantenuto sotto i 70$ artificiosamente, grazie all’utilizzo delle riserve strategiche, giacché il “buco” nei rifornimenti e nella raffinazione creato dall’uragano Katrina in Louisiana lo avrebbe fatto schizzare a chissà quanto.
   
Le riserve strategiche, però, andranno ricostituite e, siccome l’estrazione è ai massimi storici – e richiederebbe copiosi investimenti e parecchio tempo per essere ancora aumentata (vedi terza spada di Damocle) – va da sé che possiamo ragionevolmente attenderci altri aumenti.
    Sull’aumento dell’inflazione generato dal petrolio, bisogna precisare che è possibile sommare il dato al decremento del PIL – giacché le Banche Centrali possono sempre stampare carta moneta per frenarne la caduta – ma il risultato non cambia: in termini di ricchezza effettivamente fruibile (e non di aleatori valori monetari) è esattamente la stessa cosa. Chi vorrà approfondire il tema potrà leggere gli ottimi articoli pubblicati da disinformazione.it sulle monete e sul signoraggio.
   
Se con un prezzo medio di 39$ il barile ci si attendeva un calo dello 0,9% (0,4 PIL + 0,5 inflazione) con il greggio ad 80$ saremmo ad un – 1,8%. Da alcuni anni, le crescite economiche stimate per Eurolandia viaggiano fra l’1% ed il 2%; con il greggio ad 80$ saremmo alla crescita zero e, per le economie più deboli, alla recessione: la previsione è coerente con gli sviluppi. Sulla crescita USA, stimata più alta, non possiamo dimenticare che avviene grazie all’aumento costante del debito interno, estero e delle famiglie: con progressioni annuali del 5% del debito interno non si sa proprio quanto potrà ancora correre la ex “locomotiva USA”.

Meno toccate saranno le economie emergenti, Cina ed India, e la Russia che è esportatrice di energia (e di tecnologia aerospaziale): il PIL di questi paesi “viaggia” dal 6% al 9%.
   
Chi produce beni strumentali sarà forse leggermente più svantaggiato (richiede più energia costruire un computer che un programma per computer), ma anche raddoppiando il decremento del PIL causato dal petrolio la Cina crescerebbe sempre di un “robusto” 5%, contro lo zero dell’Occidente. L’India sarebbe forse meno colpita (gli indiani producono soprattutto software) e Putin si fregherebbe contento le mani: lui, petrolio e gas li vende…
La Cina dimostra di non temere molto l’aumento del costo del greggio, tanto che ha stipulato lo scorso anno un contratto per la fornitura di petrolio e gas che assorbirà praticamente l’intera produzione iraniana per i prossimi 25 anni a prezzi di mercato, non importa quali saranno. L’accordo è rimasto “nel gozzo” a George W. Bush, che sta meditando – guarda a caso – di colpire l’Iran.
E se il prezzo superasse gli 80$?
Qualcuno lo ipotizza, e sostiene che fino a 105$ il barile le economie occidentali potranno reggere[9]. Se abbiamo stimato il massimo picco raggiunto dal petrolio in 80$ il barile – raggiunto con i 35 dollari del 1980 – non possiamo dimenticare che in 25 anni il PIL dell’Occidente è cresciuto, e parecchio.
Chi sostiene questa tesi fa un semplice ragionamento: stabiliamo di spendere per l’energia la stessa quota del PIL che si spendeva nel 1980: quel limite è rappresentato proprio dai 105$ il barile.

Questo tipo d’ipotesi rischia di non meditare sufficientemente le tre spade di Damocle, e di fare la fine di quello dei 50$ il barile di Merrill Lynch: non si possono fare previsioni così complesse con la teoria statistica del “mezzo pollo”, perché non funzionano.
Il ragionamento è inoltre molto rozzo: nel 2005 abbiamo consumi (comunicazione, informatica, ecc) che nel 1980 non pesavano sui bilanci perché non esistevano, ed anche la tassazione era – complessivamente – più bassa. Quali consumi dovremmo comprimere per pagare la bolletta energetica? Non usare il telefonino e non collegarci più ad Internet? Non acquistare più un computer? Non pagare più le esorbitanti tasse sulla spazzatura?
Inoltre, la distribuzione della ricchezza per classi sociali è la stessa del 1980? Il potere d’acquisto della classe media americana non è cambiato? La crescita quantitativa delle nuove classi medie in Cina ed India come modifica il quadro? In Occidente, l’aumento del costo energetico sarà avvertito in egual modo dalle famiglie che hanno redditi intorno ai 1.500 euro rispetto a quelle che guadagnano il doppio? Lo scontro fra gli oligarchi e Putin – che vorrebbe “spalmare” i redditi su una più vasta classe media – genererà una Russia uguale all’URSS del 1980? E’ del tutto evidente che è inutile lanciarsi in previsioni cercando di prevedere con precisione ogni singolo aspetto del quadro, giacché l’interdipendenza intrinseca dei fenomeni rende inutile lo sforzo: un solo aspetto che si modifichi sostanzialmente muta completamente lo scenario.

Panta rei, tutto muta continuamente, inesorabilmente, costantemente e chi tenta di prevedere il futuro senza considerare il dinamismo intrinseco nel mutamento stesso finisce per fare la fine dei Soloni di Merrill Lynch.
Possiamo però affermare con certezza che, in Italia, già i 70$ il barile sono avvertiti dalla popolazione, e che l’aumento del prezzo dei carburanti, dell’energia elettrica e del metano condurrà ad una contrazione dei consumi per almeno la metà della popolazione: famiglie monoreddito, pensionati, salariati di fascia bassa, soprattutto nel Sud.
Un eventuale “salto” agli 80$ il barile inizierebbe a toccare anche quei paesi – Francia e Germania, ad esempio – che hanno popolazioni con un potere d’acquisto superiore all’Italia di circa il 15%.
Oltre gli 80 dollari il barile inizia veramente la “terra di nessuno” – dove non si possono fare previsioni accurate – ma soltanto indicare delle tendenze, ovvero la costante “erosione” di redditi ed investimenti, il graduale impoverimento dell’Occidente, partendo dai bassi redditi verso quelli più alti: insomma, decadenza. Oltre i 105 dollari il barile inizia probabilmente una difficile china, forse un baratro, perché le energie rinnovabili non sono ancora in grado di supplire concretamente, oggi, ai combustibili fossili.

Che fare? Si chiedeva Lenin, in anni lontani ed in ben altre situazioni.
Se vogliamo osservare la situazione armati di pragmatismo, la risposta è una sola: investire, studiare, programmare, incentivare al massimo lo sviluppo delle energie rinnovabili. Risistemare i bacini fluviali per aumentare la quota di trasporto sull’acqua (parco nei consumi): i tedeschi trasportano sull’acqua un terzo delle merci, l’Italia lo 0,1%, la marina mercantile svizzera (sic!) lo 0,4%. I russi gestiscono una rete fluviale di ben 105.000 km , e dalla caduta d’acqua delle chiuse ricavano 50.000 MW annui d’energia. Laddove non è possibile utilizzare le vie d’acqua, ricordiamo che un treno merci sposta l’equivalente di 40 autotreni.
Smettiamola di voler volare “alti” nel pronosticare il futuro per non saper gestire quello che, in “basso”, dovremmo fare: spendiamoci un po’ di più nell’installare aerogeneratori, pannelli solari, turbine fluviali, impianti geotermici, sperimentiamo la possibilità di ricavare energia dalle correnti sottomarine, mettiamo ordine nel caos dei trasporti.
Ricavare oggi un Kilowatt in più di ieri con fonti rinnovabili (o risparmiarlo) significa allontanare – anche di poco, ma realmente – il baratro ipotizzato dopo i 105$ il barile, mentre nessuna previsione, statistica e strana elucubrazione potrà spostarlo di un secondo: è giunto il momento di fare, non di parlare.
Le possibilità sono concrete: esistono leggi nazionali e documenti europei che forniscono procedure, amministrative e giuridiche; addirittura l’UE è disposta a finanziare in parte i progetti, come quello per l’incremento della navigazione fluviale.

Se non sapremo cogliere l’attimo, l’alternativa sarà quella d’ascoltare sempre nuove previsioni dalle grandi banche d’affari, dal Fondo Monetario, dalla Banca Mondiale, dai molti istituti deputati allo studio dei problemi energetici (molto spesso finanziati con fondi di provenienza petrolifera!) e non fare nulla.
Potremmo così finire – in poltrona, con il telecomando in mano – nell’attesa di conoscere l’ennesima previsione energetica di fronte al televisore. Spento, perché non avremo più i soldi per pagare la bolletta.

Carlo Bertani   bertani137@libero.it    www.carlobertani.it


[1] Fonte: British Petroleum Statistical Review 2003.
[2] Fonte: Le grandi crisi ambientali globali: un sistema in agonia, il rischio di guerra – Alberto Di Fazio – Osservatorio Astronomico di Roma e Global Dynamics Institute.
[3] Fonte: Eni World Oil & Gas Review 2003.
[4] Per comprendere le difficoltà (tecnologiche e geopolitiche) che riguardano l’utilizzo del carbone come fonte primaria d’energia (Protocollo di Kyoto, monopolio russo dei giacimenti, difficoltà tecnologiche, ecc.) rimando al testo specifico che ho pubblicato sulle energie. C. Bertani – Energia, natura e civiltà: un futuro possibile? – Gruppo Editoriale Giunti – Firenze – 2003.
[5] Fonte: British Petroleum Statistical Review 2003.
[6] Fonte: Eni World Oil & Gas Review 2003.
[7] Fonte: Direttiva 2001/77/CE
[8] Fonte: Forschungsstelle für Energiewirtschaft, München – riportato da Christopher Huss al Convegno sulla mobilità sostenibile di Milano – Politecnico di Milano – 23 settembre 2003.
[9] Fonte: La banca d’affari Goldman Sachs

 
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