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Chi è stato il primo sponsor della vittoria di Hamas? Israele
di Carlo Bertani

 Ebbene, come un merlo nella mia propria trappola, Osric; io son giustamente ucciso dal mio stesso inganno!
 William Shakespeare – Amleto – Atto V Scena II

Se, in uno stato dove si confrontano due forze politiche – l’una che vi riconosce come interlocutore, e l’altra che vi considera solo come un oppressore – iniziaste a sterminare proprio coloro che cercano l’intesa, potreste lamentarvi, dopo, della sconfitta di chi vi accettava?
La vittoria di Hamas è tutta qui, limpida come acqua cristallina, e non c’è molto da scervellarsi per capire cos’è successo in Palestina: semmai, è più arduo comprendere il sentiero che ha portato al potere gli integralisti barbuti.
E’ pur vero che Israele ha colpito duramente Hamas – giungendo ad uccidere la sua guida spirituale, lo sceicco Yassin – ma ha ugualmente perseguitato Fatah, che al suo interno aveva generato guerriglieri e politici, gente che voleva combattere ed altra che desiderava trattare, e dopo la morte di Arafat la fazione più disposta a trattare aveva avuto il sopravvento.
Non esiste conflitto più sporco di quello israelo-palestinese, giacché entrambe le parti giocano al massacro contro i loro avversari e – contemporaneamente – al loro interno, a Tel Aviv come a Gaza, ad Haifa come a Ramallah.

La prima vittima illustre (e centrale in tutta la vicenda) fu Itzaac Rabin, ex militare che aveva combattuto duramente i palestinesi nella prima Intifada – quella cosiddetta “delle pietre” – e che aveva ordinato ai suoi soldati “di rompere ai giovani palestinesi gambe e braccia ma di non ucciderli, perché altrimenti Israele si sarebbe diplomaticamente indebolito nei confronti dei suoi alleati occidentali”.
Anche quell’uomo, apparentemente così distante dalla trattativa, giunse alla conclusione che l’unica soluzione era quella di trattare, e lo fece proprio con il nemico giurato, proprio con Yasser Arafat.
A sua volta, Arafat aveva cavalcato tutte le tigri della rivolta e del terrore, combattendo fra i ruderi di una Beirut distrutta e sfuggendo alle cannonate di Sharon per approdare in Tunisia. Con un volo notturno degli F-15 Israele cercò d’ucciderlo anche là, ma non ci riuscì. Caso? Delazione? Previdenza dei servizi di sicurezza palestinesi? Nessuno lo saprà mai.
La sorte del rais di Ramallah rimarrà sempre un mistero, mentre sappiamo che alla sua vedova sono state elargite una buonuscita ed una pensione degne di una principessa del jet-set. Alla faccia di chi in Palestina quasi muore di fame.

L’ultima nemesi – se così possiamo definirla – è quella che vede un morente Sharon spendere gli ultimi respiri all’Hadassah Hospital di Gerusalemme, mentre fra la classe politica israeliana regna il caos: ancora una volta, ad un passo da significativi accordi, cade proprio la parte israeliana.
La storia si nutre di cronaca? Per chi ci crede, dietro l’angolo c’è una cocente delusione: non sapremo mai chi uccise Rabin. E Arafat? Strano destino anche quello di Sharon: sembra che la morte attenda soltanto coloro che tendono una mano verso gli accordi, verso la pace.
In questo inizio di 2006 la tragedia ha concluso il suo corso, i mattatori della scena sono scivolati dietro alle quinte ed hanno lasciato spazio ai comprimari. Qualcuno, sostiene, agli addetti alle pulizie.
Nessuno ha lasciato eredi?
L’erede naturale di Arafat non era certo Abu Mazen, un burocrate di bassa tacca, bensì Marwan Barghouti, giovane ed intelligente comandante delle Brigate di Al-Aqsa, il braccio militare di Fatah.

C’era il pericolo che Arafat avesse un Delfino – e così era – ed allora Israele provvide a catturare Barghouti ed ad internarlo in un campo di prigionia nel Neghev. Colpevole od innocente? Terrorista o politico? In quella terra fu coniata una massima che ancora sibila nel tanzim, nel vento del deserto: “Chi è senza peccato scagli la prima pietra”. Non basterebbero mai le pietre, e sia Israele sia la Palestina finirebbero per diventare una pietraia.
Ma, in definitiva, è tutta colpa delle dirigenze israeliane e palestinesi? Eh no, troppo facile: c’è il “quartetto” – USA, UE, Russia ed ONU – a menare le danze, a dare il “la” all’orchestra.
Perché, se l’Europa concede finanziamenti ed aiuti ai palestinesi, Israele bombarda tutte le infrastrutture costruite con i soldi europei (ci fu una protesta ufficiale di Bruxelles); se gli USA sorreggono Israele a suon di dollari i palestinesi sanno che – con l’infinita guerriglia – finiranno per erodere la ricchezza israeliana.
Un paio d’anni or sono, le banche israeliane cessarono di finanziare i bilanci dei comuni (“coperti” da garanzie statali), dichiarando semplicemente che non ritenevano economicamente affidabile lo stato ebraico. Il che, se sostenuto da banchieri ebrei, quadruplica l’attendibilità della stima.

E la sonnacchiosa Russia? Perché fa parte del “quartetto”? Perché Mosca è lo sponsor di Damasco e – da qualche anno – anche di Teheran. L’ONU viene ammessa come un medico con la siringa d’anestetico già pronta: nel caso i giochi di potere passino il limite, s’anestetizza il tutto con una robusta iniezione di caschi blu.
Ciò che non dovrebbe sfuggire all’analisi – mentre si grida “al lupo” per Hamas ed Hezbollah – è che si tratta sempre del vecchio giochetto coloniale e neocoloniale, dove le potenze di turno fanno a gara per spartirsi i favori di questo o quel rais per colpire l’avversario, mentre i vari rais non attendono altro che robuste mazzette di dollari e di euro per “collaborare”.
Un paio d’anni or sono – mentre lo stillicidio di vittime era all’apice – un trafelato Mubarak scendeva a Ciampino per incontrare il governo italiano (presidente di turno dell’UE): urgeva un intervento per sedare la rissa? Un nuovo piano di pace?
No, Mubarak veniva ad esigere un credito – contratto precedentemente proprio con l’UE – per non aver concesso l’ingresso in Egitto alle multinazionali americane Monsanto e Dow Chemical: in altre parole, finché l’Europa pagava, la soia egiziana non sarebbe stata geneticamente modificata. I palestinesi? E chi erano costoro?
Proprio in Egitto, però, avviene il primo giro di boa: nelle elezioni di pochi mesi fa, la Fratellanza Musulmana sfonda la psicologica quota del 10% ed invia decine di parlamentari al Cairo. I quali, sia chiaro, non contano nulla nell’Egitto del padre-padrone Mubarak, ma è il primo segnale.

Il secondo campanello d’allarme è la vittoria di Mahmud Ahmadinejad in Iran: al posto della bonaria barba grigia di Rasfanjani viene catapultato sulla scena un tizio che nel 1980 teneva prigionieri gli addetti d’ambasciata USA.
Il terzo evento è la vittoria di Hamas: scontata, giacché Israele aveva fatto di tutto per scavare la terra sotto ai piedi alla dirigenza di Fatah, più volte accusata di terrorismo.
L’assioma di Tel Aviv è tanto semplice quanto rozzo: con la forza, e con l’appoggio di Washington, avere a disposizione una “dirigenza” palestinese che prenda ordini direttamente dalla knesset, dal parlamento israeliano.
Non si tratta, però, di sole questioni politiche, perché nel rapporto fra israeliani e palestinesi è centrale il problema economico, ma pochi lo sanno e meno ancora lo raccontano.
Ogni giorno, decine di migliaia di palestinesi varcano la frontiera di Eretz fra Israele e la striscia di Gaza: che vanno a fare in Israele? Perché Israele richiede manodopera proprio all’odiato nemico arabo?

Israele ha un reddito pro-capite annuo simile a quello di molti paesi europei, intorno ai 15.000 dollari, mentre i palestinesi sopravvivono con poche centinaia di dollari l’anno: una situazione da quarto mondo.
Da dove viene l’alto reddito israeliano? Anzitutto dai capitali investiti: le grandi banche d’affari sono storicamente gestite dagli ebrei non per una “vocazione”, bensì per tradizione.
Isabella la Cattolica, per finanziare la seconda spedizione di Colombo, confiscò i beni degli ebrei nell’Andalusia appena strappata all’emiro Boabdil e li cacciò: la gran parte degli ebrei andalusi migrò nelle Fiandre (allora sottoposte la corona spagnola) e, non a caso, un paio di secoli dopo il nuovo nome delle Fiandre liberate fu proprio De Zeven Provinzen, le Province Libere.
Parallelamente – per punire gli ebrei, rei di deicidio – si stabilì che non potevano possedere proprietà immobiliari, bensì soltanto beni mobili.
Il più “mobile” bene che si conosca è l’oro (od il denaro), e da qui nacque la cosiddetta “vocazione” degli ebrei al commercio: “vocazione” mai esistita, giacché nel Pentateuco – quando si parla di ricchezza e di suddivisione della stessa – si cita sempre il termine “terra”, che bene mobile proprio non è.

In realtà, la vera ragione di quella scelta fu economica: nell’Europa del nascente capitalismo, era necessario che qualcuno provvedesse alla circolazione dei capitali senza le pastoie della Bibbia e dei Vangeli, che identificavano anche il più basso tasso d’interesse come usura, come tuttora avviene nel mondo musulmano.
Il cosiddetto “ebreo errante”, che prestava soldi ad interesse, era quindi un personaggio coerente e necessario allo sviluppo del capitalismo: che poi siano stati “cuciti” su quella figura abiti retorici fa parte di un crudele gioco di disinformazione durato secoli, una menzogna che giunse fino al nazismo.
Oggi, grandi ricchezze sono investite da banchieri ebrei nei settori chiave dell’economia: dall’energia ai diamanti, dalla tecnologia ai cosiddetti “derivati finanziari”.
Bisogna precisare che non esistono due insiemi perfettamente coincidenti fra la ricchezza finanziaria dei banchieri ebrei e lo stato d’Israele, bensì solo parzialmente sovrapponibili, e per questa ragione Israele non è un paese che vive di soli capitali.
Il piccolo stato possiede industrie d’alto livello tecnologico: dalle biotecnologie all’aeronautica, e contano sempre meno nel computo del PIL israeliano i proventi della terra; questa transizione conduce i coloni israeliani ad avere minor peso economico, e dunque politico. Lo sgombero delle colonie in Cisgiordania – sotto l’aspetto economico – sarebbe in definitiva un buon affare per Israele, che spende di più per la loro difesa rispetto a quanto riesce a ricavarci.

Sappiamo che Israele non è uno stato popoloso; anzi, ha tassi di natalità simili a quelli europei: senza l’immigrazione d’ebrei da altre nazioni, la popolazione israeliana sarebbe stabile e tenderebbe, nel tempo, a diminuire.
Se il giovane israeliano medio non è molto diverso da un europeo o da un americano – e quindi desidera occupazioni corrispondenti ad un elevato livello d’istruzione – chi lavora nelle fabbriche e nei servizi per le qualifiche di basso profilo (e reddito)? I palestinesi.
A dire il vero, fu tentata anche l’immigrazione dall’Oriente, soprattutto dalla Thailandia, ma il tessuto sociale, le abitudini e l’humus stesso della società israeliana – permeati dagli umori di uno stato fondato sull’identità religiosa – mal si adattavano ad accettare residenti stabili appartenenti ad altre etnie e religioni.
Meglio allora la soluzione palestinese: lo status di territori occupati non esiste nel diritto internazionale come forma stabile, bensì può esistere soltanto come soluzione transitoria nell’attesa di un trattato che definisca con chiarezza nuovi confini.

Il gran pasticcio è tutto qui: l’Autorità palestinese governa dei territori occupati che sono, sostanzialmente, sotto la tutela e la giurisdizione israeliana.
Questa soluzione, però, presenta notevoli vantaggi economici per Israele: i lavoratori palestinesi sono a tutti gli effetti dei frontalieri, e quindi nulla è dovuto da Tel Aviv per provvedere ai costi dello stato sociale, che ricadono completamente sulla dirigenza palestinese.
Esistono sì delle compensazioni – fondi che Israele deve versare ai palestinesi, sanciti dagli accordi di Oslo – ma Israele, con molta “disinvoltura”, ha usato spesso quei fondi come arma di ricatto, sospendendo o dilazionando i versamenti a piacere, secondo la convenienza politica. In definitiva: un ricatto economico a fini politici.
Qui entrano in gioco i cosiddetti “aiuti internazionali”, che così devono essere definiti per non urtare le coscienze dei benpensanti: come se qualcuno elargisse fondi senza chiedere nulla in contropartita!
Ogni dollaro che giunge in Palestina (ed anche in Israele…) chiede qualcosa in cambio: gli USA, da sempre, hanno un rapporto di fredda convenienza con Tel Aviv, tanto che giunsero a finanziare le forze armate israeliane soltanto se acquistavano prodotti made in USA, privilegiando l’acquisto di caccia statunitensi piuttosto che i velivoli di produzione nazionale. Negli anni ’80, gli israeliani furono costretti ad abbandonare la produzione dell’avveniristico (per l’epoca) cacciabombardiere Lavi, altrimenti i finanziamenti USA non sarebbero stati più erogati, e dovettero acquistare F16 ed F-15.

Ancor peggio avvenne ed avviene sul fronte palestinese, dove Yasser Arafat giunse spesso a definire “spocchiosa” l’elargizione di fondi da parte dei paesi arabi. E qui s’innesta Hamas.
I paesi arabi (soprattutto quelli del Golfo Persico) tenevano la borsa ben stretta perché non si fidavano della dirigenza palestinese, troppo corrotta ma soprattutto troppo “sensibile” alle richieste delle grandi potenze: insomma, Ryad avrebbe dovuto finanziare una dirigenza politica che non poteva controllare, giacché teneva il piede in due staffe, in quella araba ed in quella occidentale.
Tutte le organizzazioni politiche e militari palestinesi hanno un preciso sponsor: Hezbollah è sorretto dall’Iran, la Jiad islamica dalla Siria. E Hamas?
I verdi barbuti sono finanziati dal circuito della carità musulmana (charities) che ha come centro nevralgico il Golfo Persico, soprattutto l’Arabia Saudita. Da dove provengono i fondi?
La carità musulmana è abbastanza diversa da quella occidentale, giacché è uno dei quattro pilastri della fede islamica: si tratta quindi di una carità che potremmo quasi definire “istituzionale”.
La carità verso i bisognosi viene identificata con precisione in zacat, ovvero la carità obbligatoria – anche di modesta entità – che però ogni musulmano è obbligato ad elargire ed in saddaqua, ovvero la carità “libera” di chi vuole (e può) elargire di più.

Chi può, nel panorama medio-orientale, offrire “di più”?
Basta osservare una cartina geografica dove siano indicati i luoghi d’estrazione petrolifera per capire chi è il munifico benefattore: sono gli stessi fondi che sostengono la Fratellanza Musulmana in Egitto e, in parte, anche Al-Qaeda.
Come ha usato i fondi ricevuti Hamas? Ha creato immediatamente una potente organizzazione militare? Ha lanciato subito schiere di “martiri” contro Israele?
Hamas nacque circa vent’anni or sono come organizzazione di carità, una sorta di ONG del mondo arabo, e s’occupò principalmente di sorreggere i palestinesi creando un’organizzazione sanitaria e di protezione sociale per le vedove, gli orfani, i diseredati, che in quella terra non mancano certo.
Tanto per capire – e tradurre in un linguaggio comprensibile per l’Occidente – per decenni il “medico della mutua”, in Palestina, è stato quasi sempre un medico di Hamas. 
Ai poveri palestinesi, quindi – che rosicchiavano ora un misero salario israeliano, ora una boriosa carità da qualche corrotto proconsole dell’Autorità palestinese – gli uomini di Hamas assunsero il ruolo di munifici e disinteressati cavalieri soccorritori, degli Zorro che usavano la siringa e le medicine al posto della spada.

Ovviamente così non era e, difatti, iniziò a prendere forma – silenziosamente e con gran discrezione – anche l’organizzazione politica e militare di Hamas, frutto di un lavoro politico e sociale che aveva generato profondi legami con la società palestinese. Insomma, nulla di molto diverso dalla prassi leninista in Occidente, che prevedeva lo sbocco rivoluzionario solo se sostenuto da un precedente lungo lavoro organizzativo fra le masse dei diseredati del capitale.
Oggi, Hamas conta una milizia di circa 15.000 uomini, ben riforniti ed addestrati: per questa ragione Israele chiede a gran voce il disarmo di Hamas, perché ha provato sulla propria pelle che lo scontro con milizie preparate ed organizzate – Hezbollah ed il Libano insegnano – conduce alla sconfitta o, al limite, a delle inutili vittorie di Pirro.
Checché se ne dica, non esiste esercito in grado di sconfiggere la guerriglia: anche i super-tecnologici soldati USA, in Iraq, non riescono a controllare il territorio, giacché poco contano sensori e laser quando una fucilata ti può uccidere in qualsiasi istante, proveniente da un mucchio di macerie, da un palmeto, da una finestra.
L’Occidente osserva preoccupato l’evolversi degli eventi: l’Iran che non si piega ai voleri dell’ONU sul nucleare, Hamas che non intende riconoscere lo stato israeliano, la Fratellanza Musulmana che avanza in Egitto. Che cosa può fare?

Praticamente nulla, giacché stiamo vivendo lustri di transizione: grandi potenze economiche, finanziarie e militari stanno cedendo il passo a nuovi attori. Può, oggi, Washington fare la voce grossa con la Cina quando Pechino finanzia il 30% del debito americano?
Allo stesso tempo, né la Cina né l’India – e tanto meno altri – possono oggi gettare la spada sulla bilancia degli equilibri internazionali, giacché sono ancora potenze in ascesa e non affermate.
Tutto ciò lascia spazi politici aperti per un nuovo panarabismo, diverso da quello delle precedenti generazioni e più legato alla rigidità dei wahabiti sauditi che all’equilibrismo degli egiziani e dei siriani.
Non sappiamo, oggi, quale sarà l’evoluzione degli equilibri internazionali, e soprattutto i tempi del mutamento: ciò che invece sappiamo è che in quelle terre i conti si devono fare oggi, e non fra vent’anni.
Speriamo che la nuova dirigenza israeliana di Kadima – presa in contropiede dall’uscita di scena di Sharon – sappia resistere alle lusinghe del Likud e dei coloni, perché allora la situazione potrebbe ancora una volta precipitare, ma con rischi sempre più alti per la sopravvivenza d’Israele.
Se Hamas non riconosce lo stato ebraico, bisogna ammettere che nemmeno Israele riconosce uno stato palestinese con autorità e confini ben definiti: non sarebbe, questa, una buona occasione per compiere quel passo di reciprocità mai avvenuto?
Altrimenti – come ammettono oramai molti ebrei a microfono spento – «Si viaggia più sicuri in autobus a Roma od a New York piuttosto che a Tel Aviv o ad Haifa». E pensare che Israele era nato proprio per dare maggior sicurezza al popolo ebraico, dopo gli orrori della Shoà.

Carlo Bertani bertani137@libero.it http://www.carlobertani.it/

 
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