Perché Bush andrà alla guerra per risollevare l'economia
americana e invece combinerà un disastro
di Domenico De Simone - Informationguerrila

Ormai è certo che si farà la guerra. Contro l'Iraq, contro l'Iran, contro la Siria o la Libia, contro la Somalia o il Sudan, o contro tutti i paesi musulmani messi assieme, non si sa. Quello che è certo è che gli strateghi del Pentagono e quelli della Casa Bianca messi assieme hanno deciso che l'unico modo per risollevare le sorti dell'economia statunitense è una guerra generalizzata che rilanci l'apparato produttivo americano e allo stesso tempo dia conforto alle dissanguate tasche degli amici e degli amici degli amici.
Parlo dei petrolieri, che da una guerra generale nei confronti del mondo arabo ricaverebbero un'impennata del prezzo del petrolio facendo un po' di cassa, e poi il controllo dei pozzi dei paesi musulmani dell'ex impero sovietico con relative pipe-lines fino al mar Nero o all'oceano indiano.
Si tratta, quindi, di una guerra dura e lunga che consenta di ristrutturare l'apparato produttivo americano e che tenga sulla corda gli europei prima che si mettano in testa di impadronirsi loro del petrolio ex sovietico per magari fondarci un'Europa forte e unita.
Le premesse, nella testa dei geni della strategia statunitense ci sono tutte. La situazione è simile a quella del 1929, con una crisi comatosa della domanda e relativa sovrapproduzione, con il crollo delle borse, con la disoccupazione e le monete che saltano una dopo l'altra. Allora la questione fu risolta dalla seconda guerra mondiale, grazie alla fattiva collaborazione di nazisti e fascisti che, in nome di una strategia ancora più vecchia e perdente, quella della conquista territoriale, giustificarono la reazione del mondo anglosassone e la distruzione del predominio europeo.
Però se le similitudini in apparenza ci sono, questa volta la guerra non risolverà proprio nulla anzi, aggraverà la situazione di crisi mondiale e ci condurrà al disastro.
Vediamo di indagarne le ragioni.
L'economia degli anni trenta era basata essenzialmente ancora sull'agricoltura, che occupava oltre il 60% della popolazione attiva, mentre oggi gli addetti all'agricoltura negli USA non superano il 2% del totale degli occupati.
La produzione industriale prevalente era quella pesante, con l'acciaio in prima fila e la produzione di beni di consumo non era certo paragonabile a quello di oggi. Anzi, fu proprio il fordismo e la spinta che dette al consumo di massa che fece percorrere al sistema produttivo americano i primi passi per uscire dalla crisi.
La pubblicità era un ornamento curioso, non certo un'industria, il turismo una pratica per ricchissimi annoiati o curiosi, la televisione non esisteva, e la radio era controllata completamente dagli apparati ideologici dello Stato, e non era certamente annoverabile tra le attività produttive.
La sovrapproduzione degli anni trenta fu causata da una crisi finanziaria senza precedenti, dovuta all'incetta di oro e metalli preziosi che gli anglo americani avevano effettuato nel periodo successivo alla prima guerra mondiale. Le sanzioni pesantissime a carico della Germania, contro le quali invano si batté J. M. Keynes che le definì folli, e le distruzioni cagionate dalla guerra sul territorio europeo, impedirono la ripresa ai paesi europei vincitori della guerra, principalmente Francia e Italia, mentre la Russia fu presa nel vortice della Rivoluzione d'ottobre, e in Spagna la crisi endemica portò alla guerra civile di lì a pochi anni.
La risposta europea al dominio finanziario anglo americano, fu la militarizzazione con l'intento di conquistare con le armi nuovi mercati.
Insomma, mentre alla crisi del dopoguerra i paesi europei diedero una risposta ideologica, gli anglo-americani si garantirono il potere finanziario per mezzo del controllo dei metalli preziosi, che erano in quel tempo alla base delle emissioni di moneta cartacea.
Dicevamo che la sovrapproduzione riguardava, allora, non già i beni di consumo come oggi li intendiamo, ma i beni strumentali e l'industria pesante. Allo stesso tempo, la disoccupazione nelle città era altissima e nelle campagne la mancanza di liquidità causò una grave depressione dei prezzi dei prodotti agricoli portando alla miseria vasti strati di popolazione già in condizioni precarie.
La guerra, quindi, risolveva contemporaneamente molti problemi. Intanto, toglieva dalle città la massa di sbandati che ingrossavano le fila dei disoccupati dalle industrie e dall'agricoltura mandandoli a morire al fronte.
In secondo luogo, se comprimeva all'osso i consumi popolari, che peraltro erano già pericolosamente prossimi alla sussistenza per la maggioranza della popolazione, creava una domanda enorme di beni di consumo di produzione industriale, ovvero di armi. Allo stesso tempo irreggimentava la popolazione e depotenziava, con le parole d'ordine del patriottismo e della difesa della patria, i pericoli di esplosioni violente del dissenso da parte delle classi subalterne.
Insomma si trattava della classica buca keynesiana, però a differenza della buca in terra, la guerra aumenta la produttività dei popoli facendo leva sullo spirito patriottico e sulle parole d'ordine della difesa della patria.
Che cos'è la buca di Keynes? Per dimostrare l'utilità delle opere pubbliche e del relativo indebitamento, Keynes fece un esempio paradossale che troppo spesso viene preso alla lettera da quelli che non hanno compreso lo spirito delle sue opere. Mettiamo che non ci siano opere da realizzare, ma che lo Stato ugualmente ingaggi due squadre di operai, la prima che scava una buca in un terreno e la seconda che la va a riempire. Ebbene, anche questa attività così inutile innesca il moltiplicatore keynesiano, poiché gli operai di entrambe le squadre guadagneranno del denaro per il loro inutile lavoro (ma loro non devono saperlo che è inutile), lo spenderanno per vivere e faranno di nuovo circolare del denaro che farà partire di nuovo la produzione industriale, nuova occupazione, altra spesa e così via di seguito.
Questo esempio chiarisce il concetto di circolo virtuoso nel processo economico, mentre il contrario è dato da una situazione in cui la domanda è debole e questo costringe le imprese a ridurre l'occupazione, che a sua volta genera un ulteriore calo della domanda e così via di seguito, giù giù fino in fondo.
Qual è il fondo? La situazione in cui i consumi non sono più comprimibili pena la morte per fame di un numero rilevante di individui. E allora dal fondo si esce o con una guerra, che toglie comunque di mezzo un po' di bocche da sfamare, oppure attraverso il debito pubblico che, in una situazione di consumi all'osso, stimola la domanda di quel tanto da indurre nel sistema produttivo abbastanza forza da far ripartire il circolo virtuoso.
E' necessaria una data forza finanziaria per far ripartire il sistema, una qualunque iniezione di denaro non è di per sé sola sufficiente a far partire il meccanismo. Però, più il livello del fondo è in basso, minore forza sarà necessaria per innescare un circolo virtuoso. E' per questa ragione che i paesi poveri, quando nasce un processo di sviluppo industriale, hanno tassi di crescita spettacolari che poi mano a mano si riducono fino a non superare il 3%.
L'altra ragione per cui si verifica questo fenomeno, è data dal fatto che all'inizio del processo di sviluppo il debito dello Stato è relativamente irrisorio rispetto al PIL e quindi ci sono ampi margini di indebitamento che consentono di innescare processi multipli di moltiplicazione.
Con la crescita del debito, deve necessariamente crescere anche la pressione fiscale e questa finisce per deprimere l'economia, fino a che un evento catastrofico non faccia ripartire il sistema produttivo e la relativa appendice fiscale da zero. Tra gli eventi catastrofici, oltre alla guerra, intendo anche un'inflazione estrema, come quella che sconvolse la Germania negli anni venti o quelle che periodicamente affliggono il sud America, ma lo stesso discorso vale per un terremoto o un'alluvione a carattere regionale, sempre che ovviamente, l'ente pubblico abbia abbastanza spazio nel propri conti per assumere il consistente debito che è necessario al moltiplicatore.
Riassumendo, affinché la guerra possa fungere da volano per l'economia, sono necessarie alcune condizioni, vale a dire:
1) Che la guerra sia di massa, con milioni di uomini al fronte e milioni di donne in fabbrica e nei campi a produrre. Insomma l'intera popolazione deve essere impegnata nello sforzo di guerra affinché essa abbia un'incidenza congrua sul PIL.
2) Che la guerra sia sufficientemente lunga ed estesa in modo da impegnare mano a mano l'intero paese nello sforzo per sostenerla.
3) Che il paese abbia la capacità tecnologica per sostenere una ricostruzione profonda del sistema produttivo e la popolazione sia convinta della giustezza della guerra e quindi sia disposta ai sacrifici che le vengono richiesti.
4) Che il sistema economico abbia raggiunto il fondo o lo raggiunga per effetto della guerra, in modo da consentire all'apparato produttivo di riconvertirsi pressoché interamente alle necessità della guerra.
5) Che lo Stato abbia la possibilità di indebitarsi e quindi, se è gravato da precedenti debiti, che questi vengano in qualche modo cancellati.
Per il processo di ripresa economica, non ha molta importanza che la guerra sia vinta o perduta. La guerra del Vietnam, che rispose solo in parte alle condizioni anzidette, fu però sufficiente a generare una certa ripresa economica negli Stati Uniti. Ovviamente è diverso il discorso se la sconfitta in guerra è totale, ma in quel caso, come accadde ai paesi europei dopo la seconda guerra mondiale, basta una sufficiente iniezione di moneta per innescare un circolo virtuoso che porti il paese a superare le condizioni precedenti la guerra in pochi anni. La stessa cosa accadde nel Giappone dopo il conflitto e l'occupazione militare americana.
Ci sono le condizioni, oggi, affinché una guerra faccia riprendere l'economia?
Apparentemente, come dicevamo, la situazione attuale presenta delle similitudini con quella dopo il 1929. La crisi verticale della borsa durante il 2001, e segnatamente del Nasdaq, ricorda quella dell'autunno del 1929, che fu poi seguito da tre anni di depressione e di continue discese dell'indice fino a che il DJ di allora arrivò a quotare nell'autunno del 1932 un decimo del massimo raggiunto nel 1929.
Non siamo a questo livello di caduta, ma i 1300 punti di oggi sono circa un quarto del livello raggiunto dal Nasdaq nel marzo 2000, e la discesa non sembra essere finita qui, né al Nasdaq né, tanto meno al DJ.
Oggi come allora, la crisi è di sovrapproduzione e la debolezza della domanda impedisce al sistema produttivo di ripartire. La disoccupazione non è di massa come allora, nel senso che in una qualche misura gli ammortizzatori sociali funzionano ancora, però le continue riduzioni di personale da parte delle grandi Corporation statunitensi (da ultima l'IBM con 15.000 licenziamenti), non favoriscono certo una ripresa della domanda di beni di consumo e, in questo clima, nessuno si azzarda a tirare fuori i soldi per fare investimenti.
D'altra parte, il problema, ora come allora, è che i soldi non ci sono. Si tratterebbe di indebitarsi contando su una ripresa del mercato, ma la cosa è troppo rischiosa, e peraltro, le imprese e le famiglie sono troppo indebitate per poter sopportare ulteriori quote di indebitamento.
E' un po' come nella storia del lago e dei fiori di loto.
I fiori di loto crescono raddoppiando ogni anno. Mettiamo che un grande lago sia occupato in una sua piccola parte da fiori di loto. Essi raddoppieranno ogni anno, ma noi vedremo il lago riempirsi a poco a poco, e per raggiungere la metà del lago i fiori di loto impiegano un certo numero di anni. Un osservatore esterno potrebbe pensare che occorreranno altrettanti anni prima che il lago si riempia del tutto, mentre a quel punto manca un solo anno a che i fiori lo coprano interamente.
Nei rapporti tra economia reale e finanziaria, la situazione è descrivibile in maniera analoga. Sono occorsi circa trent'anni, affinché le operazioni di pura speculazione finanziaria aumentassero di volume in misura tale da superare le operazioni legate a contratti reali, e pochissimi anni perché le attività di speculazione arrivassero a coprire pressoché la totalità delle operazioni finanziarie. Adesso il lago è pieno e non c'è più spazio per un'ulteriore espansione della popolazione dei fiori di loto.
In altri termini, la crisi precipita con estrema rapidità, lo spazio del lago, ovvero dell'indebitamento complessivo, si è riempito del tutto, e non c'è modo di uscirne se non distruggendo i fiori, ovvero il debito.
Una guerra, oggi, non sarebbe una guerra di massa poiché sarebbe condotta da pochi (in riferimento alla popolazione) e specializzatissimi "rambo" professionisti della guerra, con tutto il loro arsenale di micidiali arnesi tecnologici.
Quindi non risolverebbe alcun problema di disoccupazione (che peraltro è ancora relativamente contenuta negli USA dove oscilla intorno al cinque per cento), né accelererebbe in maniera significativa la produzione di armi, almeno non come fece durante la seconda guerra mondiale, quando l'intero apparato produttivo era orientato alla produzione bellica.
Per quanto possano essere costosi i missili che gli americani tirano addosso ai loro presunti nemici, poiché non c'è nessuno in grado di costruirne di tali da ingaggiare seriamente un conflitto su quel piano, il loro numero non inciderà più di tanto nella formazione del PIL americano.
Durante la seconda guerra mondiale gli americani costruirono centinaia di migliaia di aerei, carri armati, navi, cannoni, mezzi da sbarco e impiegarono nella guerra milioni di uomini pressoché in tutto il mondo. Oggi, un'estensione di questo genere del conflitto contro Bin Laden e soci è del tutto impensabile. Durante la guerra del 1991 contro l'Iraq, i paesi occidentali impiegarono non più di 500.000 militari nelle varie competenze e, in un anno di guerra circa, ebbero complessivamente perdite per qualche centinaio di unità, per lo più dovute a errori di mira degli stessi militari occidentali. Il primo anno della seconda guerra mondiale, portò qualche milione di morti sui vari fronti ed all'impiego di armi in proporzione decine di volte superiore a quello dispiegato nel 1991.
Se pure Bush dovesse attaccare di nuovo l'Iraq, non ci sarebbe alcuna mobilitazione generale, né alcuna significativa incidenza sull'industria. Certo, i suoi amici, armaioli e petrolieri, qualche effimero vantaggio l'otterrebbero, poiché gli uni costruirebbero più missili e gli altri vedrebbero aumentare il prezzo del petrolio da una situazione di tensione nei paesi arabi. Appunto vantaggi effimeri, o meglio interessi privati in atti di ufficio, poiché per la nazione americana le ricadute dell'incremento di produzione di armi sull'economia non ci sarebbero e l'aumento del prezzo del petrolio sarebbe un onere e non un vantaggio.
Non solo, ma il clima di incertezza e di paura che diffonderebbe nel mondo una guerra continua, rafforzerebbe la sfiducia nel sistema che già è endemica in tutto l'occidente e quindi accelererebbe l'avvitarsi della crisi. A prescindere, infatti, dalle difficoltà tecniche ad indebitarsi ulteriormente, nessun imprenditore sano di mente farebbe debiti per investire in un clima di guerra e di totale incertezza, così com'è necessario che il futuro venga dipinto proprio per giustificare la guerra. E, se pure l'incremento di spesa dello Stato fosse finanziato con una politica di deficit spending, l'effetto moltiplicatore, sul quale ho molti dubbi, sarebbe assolutamente marginale, e alla fine l'effetto sicuro sarebbe una ulteriore crescita del debito pubblico che arricchirebbe soltanto i pochi amici di Bush.
A meno che la situazione non precipiti in tutto il mondo, e la guerra al terrorismo si risolva in un piano di controllo militare del mondo intero, dal sud America all'Asia, dal Medio Oriente all'Oceania, dall'Europa orientale fino all'Africa intera.
In quel caso, assisteremmo alla militarizzazione degli Stati Uniti, alla trasformazione della sua popolazione in poliziotti universali, con milioni di persone sotto le armi per combattere la guerra totale al resto del mondo, in nome del dollaro e degli interessi delle Banche e delle lobbies finanziarie.
Però, nemmeno questo alla fine risolverebbe i problemi l'economia, nemmeno dopo la fine della guerra, se mai una guerra del genere giungesse da qualche parte. Il problema del debito resterebbe comunque in piedi, e la bolla finanziaria non cesserebbe di esercitare i suoi effetti nemmeno in una situazione del genere.
Il punto è che la produzione è divenuta essenzialmente immateriale ed una guerra finirebbe per distruggerla. I soldati al fronte non consumano né film, né partite di calcio, né software non fanno i turisti e non navigano in internet e, per quanto la loro attività sia compresa sotto la voce servizi, la loro capacità di consumo sarebbe infinitamente inferiore a quella che avrebbero pure se restassero disoccupati a casa. In altri termini, la guerra sostituirebbe nella attuale voce servizi del PIL americano, un unico prodotto, quello militare, all'enorme varietà offerta di immateriale che oggi compone quella voce.
Se pensiamo che l'immateriale copre adesso oltre il 70% del PIL americano, ci rendiamo conto che affinché la sostituzione sia, non solo efficace, ma in grado di rilanciare l'economia, il tenore di vita della stessa popolazione americana dovrebbe essere drasticamente ridimensionato fino a ritornare pressappoco alla situazione ante seconda guerra mondiale.
Nessun presidente, ma nemmeno un dittatore sanguinario potrebbe sostenere a lungo una situazione del genere. Un processo di militarizzazione totale della società statunitense è oggi, inimmaginabile. Esso comporterebbe la chiusura della maggior parte dei media americani, delle attività di spettacolo, la militarizzazione delle multinazionali e della ricerca scientifica, la irreggimentazione della borsa e delle attività finanziarie, la chiusura delle attività legate al turismo ed al tempo libero, il controllo totale di internet e la destinazione della produzione di software essenzialmente per le attività militari, il che comporterebbe la fine dell'open source e di ogni libertà di iniziativa. Ciò comporterebbe il fallimento di due terzi delle società quotate alla borsa di New York, ed un drastico ridimensionamento delle superstiti. Insomma, il mondo di Orwell al confronto sarebbe una specie di paradiso terrestre.
Allo stesso tempo i consumi alimentari dovrebbero ridimensionarsi in maniera radicale, e così i consumi di qualunque altra specie di prodotti, soprattutto di quelli di importazione. Il dollaro attuale finirebbe per valere come la carta straccia ed un nuovo regime monetario dovrebbe essere creato per il nuovo modello economico dell'economia di guerra. E se questi possono essere gli effetti della militarizzazione negli USA, nel resto del mondo la situazione sarebbe affatto peggiore, soprattutto in una Europa che vedrebbe anch'essa ridurre drammaticamente le proprie principali industrie (turismo e media) e non potrebbe partecipare all'opera di militarizzazione totale a meno che non decidesse di fare la guerra agli USA. In quel caso, potremmo pensare davvero di chiudere il mondo ed andarcene in un altro pianeta.
Che cosa lascerà, allora, la guerra di George? A parte i morti, la paura, gli attentati, e tanta rabbia dappertutto, sul piano economico essa porterà un po' di denari ai suoi amici e tanta miseria nel resto del mondo, a partire dal sud America che si sta avvitando sempre più in una crisi irreversibile.
La crisi delle borse peggiorerà e forse per davvero, come scrissero Soros e Ravi Batra nell'ormai lontano 1998, il DJ scenderà a 4.500 e il Nasdaq a 800 punti, vale a dire la metà di oggi o giù di lì.
Noi italiani, con l'euro sempre più forte, saremo tra i primi a pagarne le conseguenze. Già adesso il settanta per cento delle famiglie ha difficoltà ad arrivare alla fine del mese. Se dovessero calare le esportazioni per via della forza dell'euro, e contrarsi ancora la nostra principale industria, il turismo, ci si potrebbe trovare in una situazione simile a quella argentina, costretti nella camicia di forza dell'euro ed impossibilitati a creare moneta in altro modo.
Il vecchio sistema di creazione di moneta era la svalutazione, ma adesso non si può più, poiché essa è saldamente nelle mani della BCE, vale a dire degli interessi tedeschi, in primo luogo, e francesi in seconda battuta.
L'autunno si preannuncia caldo, anzi caldissimo, e se non troviamo rapidamente una via d'uscita, l'inverno sarà bollente. I borbottii che si levano da molti paesi europei sui vincoli di Maastricht, fanno pensare che la situazione sia al limite della governabilità.
In questo quadro, si tratta di trovare al più presto una maniera per uscire dalla logica del debito e del governo della finanza. Quella dei Titan è una proposta (vedi in http://www.informationguerrilla.org/una_proposta_di_finanza_alternativa.htm) Forse ci sono altre possibilità, non c'è limite alla fantasia quando la necessità aguzza l'ingegno. Ma è necessario fare presto, non c'è rimasto molto tempo.

Domenico de Simone

 
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