- Dopo l'11 settembre
- Libreria

Osama attacca al momento giusto
Dal libro "Osama Bin Mossad" di Maurizio Blondet

ORDINA IL LIBRO

Lunedì 12 maggio 2003 la capitale saudita, Riad, è colpita da un attentato terroristico di vaste proporzioni e coordinato perfettamente. Almeno una dozzina di terroristi suicidi, facendosi strada con armi automatiche, penetrano in un quartiere dove abitano stranieri - un quartiere sorvegliato e trincerato - e fanno esplodere almeno tre automezzi carichi di esplosivo ad alto potenziale. Una quarantina le vittime, fra cui sette americani (di cui non vengono fatti i nomi, con una sola eccezione). Nei giorni seguenti, un attacco terroristico parimenti coordinato colpisce diversi obbiettivi a Casablanca, in Marocco, e una ventata di attentati terroristi suicidi quasi senza precedenti insanguina Israele. E' altamente possibile che, a breve ci saranno altri attentati spaventosi, in vari paesi del mondo, Europa non esclusa. E' difficile scrivere articoli sotto l'incalzare di eventi il cui prodursi è politicamente urgente. Difficile sapere per chi non è iniziato. Difficile perciò "prevedere". Di una cosa siamo certi: tutti gli attentati avvenuti e venturi sono attribuiti ad Al-Qaeda. Ce ne assicurano, nei giorni sanguinosi di maggio, giornalisti regolarmente invitati in dibattiti televisivi. In Italia, si tratta specificamente di giornalisti "esperti" di "terrorismo" e di "Medio Oriente".

Nomi come Magdi Allam, Massimo Introvigne, Massimo Franco. Giornalisti che ci stupiscono per il loro sapere: sanno tutto di Al-Qaeda, l'imprendibile rete di cui nessuno sa veramente nulla. Sanno i nomi dei colonnelli clandestini, sanno distinguere l'ala "militarista" di Al-Qaeda (che ha deciso di attaccare tutti i Paesi islamici filo-americani) e l'ala "moderata" (sic), che vorrebbe limitare l'attacco ai "crociati". Tutti, nei dibattiti, mettono in luce l'annoso ambiguo ruolo che il regime saudita - la famiglia miliardaria dei Saud, composta da cinquemila avidi membri - ha giocato nello sviluppo del terrorismo islamico. Seguaci della rigorista e ipocrita setta wahabita, i Saud hanno diffuso tra i popoli dell'Islam l'odio anti-occidentale: l'hanno fatto finanziando predicatori musulmani estremisti. Hanno pagato anche, direttamente, i terroristi islamici più pericolosi: un po' per simpatia, un po' per tenerli impegnati lontano dal loro regno.
Tutti ci parlano di Al-Qaeda come l'ispiratrice generale degli attacchi concertati; anche se poi si affrettano a precisare che Al-Qaeda non ha una organizzazione gerarchica, che è piuttosto una imprecisabile "rete", magari a maglie larghe, diffusa dovunque (specie qui, in Italia!) ma - misteriosamente - senza un apparato direttamente responsabile di così ben coordinate stragi. E Osama? Forse è morto. Ma ci sono i suoi vice, i suoi colonnelli...ne sanno i nomi. E ci dicono all' unisono: Osama Bin Laden (sia vivo o morto non importa) punta a prendere il potere in Arabia Saudita. A detronizzare la famiglia reale, e a istituire il nuovo Califfato. Come conti di fare, con qualche suicida e contro la superpotenza mondiale, non ce lo spiegano. Ma dovete credere a certi giornalisti, e solo a loro. Sono ben informati. Alcuni di loro, va notato, hanno seguito "corsi" di istruzione sul terrorismo islamico: tenuti dall'Fbi, dal Mossad, dall'M-5, il servizio segreto britannico. Sono privilegiati: inviati selezionati a corsi informativi per pochi intimi. Sono stati bene informati dalle fonti più certe e affidabili, ed ora diffondono all'opinione pubblica spaventata e angosciata le informazioni che hanno ricevuto.

Ci parlano di una "risorgenza" di Al-Qaeda: non distrutta dalla sconfitta di Saddam, anzi rinvigorita, più affollata che mai di aspiranti suicidi. Qualche altro giornalista, meno bene informato, ingenuamente rimprovera l'Amministrazione Bush: ecco che cosa ha portato la tua guerra in Irak. Non alla sconfitta del terrorismo, ma alla sua aumentata virulenza. Non alla stabilità, ma alla destabilizzazione di paesi amici. Ciò mette in difficoltà George W. Bush. La sua politica, che è l'applicazione all'intero Oriente islamico della "politica" che Sharon applica ai palestinesi, ottiene gli stessi risultati che Sharon ottiene in Israele: non stabilità, ma insicurezza accresciuta, e la necessità di rispondere con nuova violenza, in una spirale senza fine. "I politici di Usa ed Europa hanno sottostimato fino a che punto Bin Laden avrebbe usato la guerra in Irak come mezzo di propaganda per ringiovanire il movimento e ottenere nuovi fondi", dice per esempio Paul Wilkinson, capo del "Centro per gli studi sul terrorismo e la violenza politica alla St. Andrew's University di Scozia: "Abbiamo davanti tempi turbolenti".
Questo è certo. Ma è proprio certo che il presidente Bush è messo in difficoltà dalle esplosioni di Riad, Casablanca, Gerusalemme? Il mattino dell'attentato a Riad, George W. Bush stava cominciando a parlare di un argomento per lui spinoso: l'economia. In Usa l'economia va male. La disoccupazione cresce. Il dollaro cala. La gente è scontenta. Su questo tema Bush rischia le elezioni di medio termine - previste per il novembre 2004 - proprio come suo padre perse le elezioni dopo la vittoria nella Guerra del Golfo, perché incapace di dare una risposta ai problemi sociali interni. Mentre parla di quel difficile argomento, lo raggiunge la notizia delle bombe a Riad. Una quarantina di morti, alcuni americani. E Bush è di nuovo il comandante in capo, i sondaggi lo tengono in alto. Può mettere da parte le questioni spinose dell'economia, e ripetere il suo mantra: "the war goes on", la guerra continua, non è finita. L' "asse del male" sarà sconfitto. Lentamente ma sicuramente. Pochi giorni prima il Pentagono aveva deciso di ritirare le sue truppe numerose, di svuotare le basi che ha installato in Arabia Saudita fin dalla guerra del Golfo, quando si trattava di proteggere il reame petrolifero dagli attacchi (che non si avverarono) del malvagio Saddam.

Quelle basi sono invise alla popolazione araba, sono la causa apparente del voltafaccia anti-americano di Osama Bin Laden, già agente della Cia e grande alleato degli Usa nella guerra afghana contro l'Urss. "Non c'è più ragione che restino qui", dicevano i portavoce della casa saudita. Poi, l'attacco: a Riad, proprio a Riad. Il ritiro delle truppe procederà? In ogni caso, i militari americani si ritirano non tanto lontano: nell'emirato del Qatar, fazzoletto di deserto e di supermercati a un tiro di schioppo dalll'Arabia. Bush dovrebbe ringraziare Bin Laden, se fosse vivo (e anche da morto, se fosse morto). Così, dovrebbe ringraziarlo Ariel Sharon. Sconfitto Saddam - Bush l'aveva promesso - la Casa Bianca si impegna a trovare una soluzione al problema palestinese. C'è già sul tavolo la "road map", il ruolino di marcia delle concessioni - anzitutto il congelamento delle "colonie" ebraiche nel territorio palestinese - che Sharon deve fare, se vuole la pace.
Tema sgradevole per lui. Il piano di Sharon è completamente diverso. Lo rivelò, il 12 luglio 2001, il Jane's Information Group (1) di Londra, il massimo osservatorio militare del mondo. Sharon, dissero gli esperti di Jane's alla rete televisiva CBS nel 2001, "sta progettando una massiccia invasione dei territori palestinesi [...] per distruggere le forze armate palestinesi e la stessa Autorità Palestinese, forzando il suo presidente Yasser Arafat all'esilio, come già fu esiliato per dodici anni dopo l'invasione israeliana del Libano nel 1982 [...] Il rapporto dice che il piano d'invasione israeliano sarebbe lanciato dopo un altro attacco suicida che causi un largo numero di vittime". E il piano è stato attuato, e davvero Arafat è stato sul punto di prendere la via dell'esilio, davvero l'operazione è in fase di avanzata realizzazione. Possibile che ora Sharon accetti di chinarsi sulla "road map"? No, l'idea non gli piace. E difatti, ecco mobilitarsi in America i più fidi alleati dello sharonismo, i fondamentalisti protestanti (che aspettano il secondo avvento del Messia) uniti ai fondamentalisti ebraici americani a rigettare ogni concessione ai palestinesi.


Ce ne dà notizia il Washington Times del 18 maggio 2003: lì, al Shoreham Hotel, almeno un migliaio di rappresentanti dei due fondamentalismi si sono riuniti per lanciare a Bush un messaggio: la "road map" non è solo un errore politico, è una eresia religiosa. "Solo il Signore è il padrone della terra d'Israele, sicché lui solo può cederla. E lui l'ha data per sempre al popolo ebraico", ha proclamato in quella sede Gary Bauer, repubblicano falco che dirige un centro conservatore chiamato "American Values". "La road map è satanica", ha rincarato Earl Cox, che dirige un programma radiofonico protestante chiamato "Front Page Jerusalem", ascoltato da molti dei 45 milioni di evangelici americani che sostengono Israele. Alla riunione c'era anche Jan Willem van de Hoeven, fondatore di una sedicente International Christian Embassy, con base in Gerusalemme, già nota per aver reso utili servizi a Sharon: nel 1997 lanciò l'allarme su "persecuzioni" contro i cristiani in Terra Santa ad opera dei palestinesi, che si rivelarono false (2): "Il Signore sta per ritornare: che non trovi una moschea, ma il Terzo Tempio", ha gridato ispirato van de Hoeven. C'era anche Daniel Pipes, un "esperto di Islam" famoso per i suoi sentimenti anti-arabi, che ha posto la domanda: "Perché noi americani distruggiamo i nostri nemici [Saddam] e pretendiamo da Israele che risparmi i suoi nemici?".
Ma questi, in qualche modo, erano tutti focosi figuranti della "destra cristiana". Meno importanti di un altro personaggio presente all'incontro, in quanto lo aveva organizzato: Frank Gaffney. Ebreo, Frank Gaffney jr. è il fondatore e il presidente a vita del Center for Security Policy (CSP), un istituto strategico privato che è l'erede del Committee for the Present Danger di Donald Rumsfeld. Nel CSP, attorno a Gaffney, siedono più o meno le stesse personalità che già compaiono sia nel Jewish Institute for National Security Affairs ( JINSA), nel Defence Policy Board, nell'American Enterprise o in qualche altro organo dei neoconservatori americani, o più esattamente ebraico-americani: da Richard Perle ad Elliott Abrams (membro del National Security Council, organo di Stato), a Douglas Feith (ebreo, numero tre al Pentagono) ad Andrew Ellis, vicepresidente della Boeing, a Charles Kupperman, della Lockheed Martin, a John Lehman della Ball Aerospace & Technologies: insomma uno dei consessi riservati in cui i dirigenti del settore militare-industriale, falchi per mestiere, stanno gomito a gomito con i falchi israelo-americani che hanno il potere al Pentagono (3).

Gaffney è amico intimo di Richard Perle, e adoratore fanatico di Sharon. E' lui che, a nome del suo CSP, contribuì ad elaborare nel 1995 il memorandum dal titolo: "Un taglio netto, nuova strategia per il Regno [di Israele]" che consigliava l'allora premier Netanyhau di rompere ogni trattativa con l'Autorità Palestinese, e puntare alla vittoria militare sugli insubordinati. Ora, nella riunione "interreligiosa" di Washington intesa a premere per l'abbandono della "road map", Gaffney invitava i presenti, i leader ebraici e quelli protestanti, a fare lobby su Bush perché abbandoni la "road map". I mesi precedenti alle elezioni del novembre 2004 saranno ideali per indurre il presidente a rinunciare al piano di pacificazione, ha detto. "Benché Bush sia sottoposto a notevoli pressioni in senso filo-palestinese, egli è dalla nostra parte con l'anima e il cuore", ha assicurato. E' difficile credere che Gaffney avesse riunito l'incontro senza incoraggiamento da Sharon: egli è appunto uno dei massimi promotori presso la Casa Bianca delle politiche di Sharon in Israele. Attraverso di lui, il governo israeliano stava dunque già eccitando la parte di opinione pubblica americana su cui può contare, a premere per osteggiare la "road map".
E tuttavia, è difficile per Sharon rifiutare la "road map". Finita la guerra a Saddam, e mentre tutti i regimi nella lista dell'Asse del Male - dalla Siria all'Iran - si affrettano ad ingraziarsi la Casa Bianca per non essere i prossimi nemici della guerra infinita, pronti ad abbandonare i gruppi terroristi che hanno finanziato e appoggiato. Difficile, nel clima di stasi bellica post-Irak. Difficile anche perché a capo dei palestinesi non c'è più Arafat (con cui "non si può trattare") bensì Abu Mazen, il moderato che gli stessi israeliani hanno scelto, al posto dei palestinesi, come interlocutore. Ma, ecco l'ondata di attacchi suicidi contro Israele. Coordinati con l'attacco terrorista suicida di Riad. In modo che sia chiaro che, benché la guerriglia palestinese abbia una sua autononia e ragioni molto locali per colpire, è una stessa mente che li scaglia contro il nemico: Al-Qaeda.

Sharon annulla il viaggio alla Casa Bianca, già programmato, dove avrebbe dovuto mettersi a discutere la "road map". Alla tv italiana, Fiamma Nierenstein, giornalista molto informata (suo marito è un colonnello del Mossad) può dichiarare, sospirando, che Sharon stava per mettere sul tavolo di Bush "un regalo", ma ha dovuto - con quanto rincrescimento - rinunciarvi. Come si fa a trattare con i palestinesi, finché essi scatenano i terroristi suicidi? Non ci sarà dunque mai pace? Forse è meglio porsi un'altra questione: se la destabilizzazione non sia stato il vero scopo della guerra all'Irak.
Se essa sia il vero fine strategico a cui punta il centro di potere israeliano-americano. La destabilizzazione permanente consente la continuazione del piano anti-palestinese che Jane's ha attribuito a Sharon, predicendolo con anticipo di anni. La destabilizzazione dell'area consente agli Usa di mantenere l'ingerenza armata nella vasta area petrolifera medio-orientale. Ce l'avevano detto, in fondo: l'Irak non è stata una guerra, ma la battaglia di una guerra più vasta. La quarta guerra mondiale, come ci aveva annunciato Woolsey. L'instabilità dell'area presenta vantaggi preziosi per i fini della quarta guerra. Il terrorismo di Bin Laden (grazie Osama, che tu sia vivo o morto), il risorgere della "nuova" Al-Qaeda (grazie ancora), sta colpendo stati amici degli Usa; come quasi sempre, il terrorismo islamista ha avuto di mira non l'Occidente, ma i regimi odiati delle nazioni islamiche. Ma, intanto, offre un prezioso pretesto per le future "battaglie" della infinita "guerra". Soprattutto a danno della monarchia saudita. Non facciamoci distrarre né dagli schizzi di sangue né dalla disinformazione: l'Arabia Saudita è l'epicentro della prossima fase. Il primo della lista. Il più urgente.

Note
[1] Jane's pubblica annualmente il più aggiornato almanacco sulle forze militari di tutto il mondo e un'autorevole rivista, Jane's Defense Weekly.
[2] Abbiamo già raccontato l'episodio in Chi comanda in America, pp. 152. Effedieffe, 2002.
[3] Sui componenti del Center for Security Policy si veda il nostro Chi comanda in America, cit., p. 101

 
www.disinformazione.it