- Pagina economia

Ogni anno in isolette dell’Atlantico e del Pacifico, ma anche in Europa, passano 1800 miliardi di dollari. Per metà sono proventi del crimine internazionale, l’altra grande quota è costituita da fondi occultati da imprese e finanziarie

 

Paradisi fiscali
Di Giorgio Ferrari tratto da «Avvenire» - 8 gennaio 2004

Un enorme flusso di denaro (anche dall’Italia) in 35 Paesi. La vicenda delle società legate alla Parmalat con sede alle Cayman ha riacceso i riflettori sulle zone franche fiscali e sui meccanismi dell’elusione L’Ocse ha stilato una lista nera delle entità territoriali più «compiacenti»

La citazione è d'obbligo: Home is where money is, ovvero, la nostra patria è dove ci sono i soldi. Potrebbe essere il motto dei paradisi off-shore e in qualche modo lo è. Perché per una non piccola porzione del mondo degli affari, dell'industria e della finanza la patria - quella vera, quella dove batte il cuore del patrimonio - sta proprio lì, in quel catalogo stilato dall'Ocse e che qui riproduciamo in ordine alfabetico: Andorra, Anguilla, Antigua e Barbuda, Aruda, Bahamas, Bahrein, Barbados, Belize, Isole Vergini britanniche, Guernesey, Isole Cook, Dominica, Gibilterra, Grenada, Isola di Man, Jersey, Liberia, Liechtenstein, Maldive, Isole Marshall, Monaco, Montserrat, Nauru, Antille olandesi, Niue, Panama, Saint Kitts e Nevis, Sainte-Lucie, Saint Vincent e Grenadine, Samoa occidentali, Seychelles, Tonga, Isole Turk e Caicos, Isole Vergini americane, Vanuatu. 

E non dimentichiamo, naturalmente, le Cayman Islands, forse di questi tempi la più celebrata di queste località grazie alla ribalta che le ha conferito il crac della Parmalat. Sono queste le casseforti, o se preferite i paradisi fiscali, o se proprio volete le piazze off-shore (il termine nasce dal contrabbando di whisky durante il proibizionismo nei ruggenti anni Venti americani) dove trova rifugio una massa monetaria e finanziaria le cui dimensioni hanno dell'incredibile: 1.800 miliardi di dollari annui di volume d'affari gestito, così distribuiti: almeno il 40% proveniente da traffici illeciti, traffico d'armi, finanza occulta legata alla droga o al terrorismo; il 45% frutto di "pianificazione fiscale" (ma diciamo pure elusione, quando va bene, o evasione quando vogliamo essere più schietti); il 15% da finanza "politica" (i tesori e tesoretti dei vari dittatori del Terzo mondo, i fondi della cooperazione internazionale abilmente stornati da governi e/o funzionari corrotti). 

Basterebbe un biglietto da visita di questa natura per indurre ogni azienda per bene, ogni banca che rispetti, ogni professionista no n compromesso con affari di dubbia legalità ad evitare come la peste simili luoghi. Invece accade il contrario. Le società off-shore al mondo sono quasi 700mila, i trust (società fiduciarie che amministrano patrimoni) almeno 1 milione e 200 mila, ma soprattutto sono 10mila le banche di tutto il mondo che hanno sportelli aperti nei paradisi fiscali. Anche l'Italia non sfigura: le banche italiane con sedi nelle piazze off-shore sono 320, mentre più di cento sono i gruppi residenti nei paradisi fiscali controllati da istituti di credito italiani. Ma le stesse società italiane quotate in Borsa sembrano avere grande dimestichezza con questi luoghi: 112 di esse, pari al 48% del listino, posseggono pacchetti di controllo di società domiciliate alle Cayman, o a Jersey, o a Vanuatu, o a Tonga, così il 22% dei gruppi bancari italiani controlla società di quei paradisi fiscali. Ma è davvero un reato aprire una società o avere un conto bancario alle Cayman piuttosto che alle Bahamas? Certamente no. Si è sovente in cattiva compagnia, ma chi bada dopotutto al proprio vicino quando è in coda allo sportello della banca sotto casa? 

Le piazze off-shore esistono perché il mercato le ha create. Ed è stata la connivenza e la convenienza di molti Paesi (il primo fra tutti è la Gran Bretagna, che ne ha create, protette e difese il maggior numero e continua a farlo) a permettere che esistessero e continuino a esistere. Oggi basta poco per accedere a uno di questi sportelli, a una casella postale o a una sede legale di società: con minimo di 2 euro di capitale sociale (avete letto bene: 2 euro) e un massimo di 30mila si ottiene qualunque tipo di forma societaria, con un risparmio sulle tasse e le imposte che può raggiungere l'80% a confronto con i costi dei Paesi d'origine, quelli che non presentano particolari vantaggi fiscali. Si va dunque alle Cayman, alle Cook o nel Liechtenstein perché conviene e perché si elude il fisco. Non propriamente un'evasione, ma una fuga legalizzata sì. E con costi irrisori, visto che i paradisi fiscali chiedono contributi minimi e quasi sempre non fanno pagare tasse. 

Su operazioni di questo tipo ha costruito più di una trama John Grisham, il re del legal-thriller americano. Ma non è tutto. Alcuni paradisi societari off-shore offrono una specialità che è forse il sogno inconfessato di ogni amministratore: fare a meno delle scritture contabili. Il che, nel caso molto raro di un'indagine giudiziaria, non porterà gli inquirenti a granché. E se poi una contabilità si deve proprio tenere, le piazze off-shore offrono dei server molto accoglienti dove scaricare e controllare i propri bilanci reali on line al riapro da occhi indiscreti. Fare del moralismo su un fenomeno di tali proporzioni e vastità sarebbe fuori luogo. Quello che il risparmiatore deve però sapere (e non poca responsabilità ha chi gli offre certi prodotti e non lo informa a dovere) è che una parte delle operazioni finanziarie dei Fondi di investimento passa per queste isole silenziose. E talvolta, come nel caso di Parmalat, il Fondo è domiciliato proprio lì. E sono rischi da valutare, perché difficilmente - in caso di inadempienza - si riuscirà a trovare il bandolo di una società di Tonga controllata da un trust di Guernsey e partecipata da una banca off-shore di Kuala Lumpur. Che cosa fare? Strapparsi i capelli? Tenere i soldi sotto il materasso? Niente affatto. Riflettere un po' di più, semmai, informarsi meglio. Parafrasando Humphrey Bogart potremmo dire: «È la globalizzazione, bellezza, e tu non ci puoi fare niente».

 
www.disinformazione.it