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- Pagina guerra e terrorismo

La porta che non c’è
di Carlo Bertani - 29 novembre 2006

“Quanto felice sia ciascun sel vede, chi nasce sciocco ed ogni cosa crede!”
Nicolò MachiavelliMandragola

Oggi, 27 novembre 2006, sembrerebbe un giorno come tanti altri: il sole si è alzato intorno alle 7.30 ed è andato a coricarsi verso le 16.30. Usually.
Legioni di autoveicoli hanno assaltato le autostrade e moltitudini d’allievi hanno atteso la campanella: è lunedì, e migliaia di bovini sono stati abbattuti nei macelli. Un giorno come un altro nell’autostrada dell’umanità. Apparentemente.
Il Presidente del Consiglio Prodi ha annunciato che in Iraq rimangono solo poche decine di militari italiani – quelli che hanno organizzato l’esodo – e che ben prima di Natale saranno tutti a casa. Lo sapevamo.

Ciò che forse non ci aspettavamo era l’annuncio – in contemporanea – del ritiro del contingente inglese dall’Iraq entro la prossima primavera e di quello polacco entro il prossimo anno. Per la scelta dei tempi è meglio fidarsi degli inglesi ed un po’ meno dei polacchi: i primi la Wehrmacht l’hanno fermata, i secondi l’hanno subita.
Se Blair (o forse è già Gordon Brown che decide?) parla di un ritiro a così breve termine significa che la situazione sta precipitando: anche l’annuncio di un ritiro nel lungo periodo dei polacchi conferma la tendenza, giacché quando s’accorsero che era iniziata una guerra si ritrovarono i panzer Mark IV alle porte di Varsavia.

Diverso è il caso degli USA, i “mecenate” dell’impresa irachena: coloro che avrebbero dovuto ricevere gloria, ricchezza ed onore dall’avventura e che oggi non si sa nemmeno se riusciranno a conservare la liquidazione dopo il licenziamento.
Oggi si parla della “exit-strategy”, ossia del modo d’andarsene: se non sapete come fare per uscire dal lavoro anzitempo pensateci, createvi una bella “exit-strategy” anche voi. Situazioni imbarazzanti, come essere scoperti a far l’amore in un ascensore oppure a fumare in un ufficio pubblico, possono essere risolte soltanto con una meditata “exit-strategy”, altrimenti vi beccano con le mutande abbassate e con il mozzicone fra le dita.

Per trovare una buona via d’uscita (e basta con questo inglese…) bisogna raccogliere prima tutte le informazioni necessarie: l’ascensore può essere sbloccato dall’esterno? C’è un aspiratore che disperde il fumo accusatore?
Se chiederete consiglio ad un polacco – per come immaginano il futuro dell’Iraq – vi scopriranno di sicuro in intimo raccoglimento con la moglie del capo mentre vi fate una canna. E’ senz’altro meglio raccogliere informazioni da gente del posto.
Ogni tanto, un iracheno di quelli che abitano nella Zona Verde e che sono sopravvissuti agli attacchi della guerriglia viene ricevuto a Washington e siede accanto a Bush con il camino acceso nel mezzo. Anche a Ferragosto. Cosa si diranno?

A mio parere, prima di farlo passare nello studio ovale gli fanno l’elettroshock ed un trattamento psicologico “embedded”, così come si comportano con i giornalisti “amici” per far loro raccontare che si è ad un passo dalla vittoria. Dopo aver ascoltato parole rassicuranti – ovvero che nel chilometro centrale della Zona Verde gli attentati sono diminuiti dello 0,3% nell’ultima settimana – Bush si consola e scendono insieme per fare la solita conferenza stampa di fronte a quattro cugini, tre nipoti ed alle amanti dei rispettivi cugini e nipoti.
Seguendo questo comportamento, il risultato è lo stesso: in un terrificante secondo che sembra un secolo, la porta dell’ascensore si apre e mostra al mondo le nudità, vostre e della vostra amante. Nel 1975, improvvisamente, la porta dell’ascensore chiamato “Vietnam” s’aprì di botto ed osservammo gli elicotteri che venivano precipitati in mare dalle portaerei per far posto ad altri che giungevano da Saigon con gli ultimi fuggitivi.

Sarebbe forse meglio lasciar perdere iracheni “embedded” e polacchi per ascoltare gli uomini dei servizi segreti? No, nel tempo sono stati tutti “scremati” ed “aggregati” all’establishment.
Deve essere terribilmente difficile mettere un orecchio non “ufficiale” fuori della Casa Bianca, ma sarebbe l’unico modo per ascoltare qualche voce che porta consigli attendibili, che racconta storie vere, mica le solite barzellette da raccontare a Rumsfeld ed a papà.
A dire il vero qualche “sussurro” s’era già udito: il Presidente iracheno (ma Presidente di che?) Jalal Talabani, curdo, poche settimane fa inviò un accorato appello a Bush chiedendogli di mantenere almeno il controllo d’alcune basi aeree in Iraq. Salvami almeno la pelle con qualche F-16, George, fammi la grazia. Oggi – sempre lo stesso sonnacchioso 27 novembre – si rivolge a Teheran per chiedere aiuto e protezione per “pacificare l’Iraq”. La paura fa veramente 90.

I persiani sono persone gentili: seppero ritirarsi con onore di fronte ai greci vittoriosi, e non hanno fatto mancare a Talabani una risposta gentile. Di cortesia, appunto: magari gli faranno avere anche un valido documento per l’espatrio, come un passaporto della Jugoslavia di Tito oppure un salvacondotto emanato dalla sede diplomatica del Regno delle Due Sicilie a Teheran.
Anni e mesi fa, quando sostenevamo che la guerra in Iraq non poteva finire che con la “dipartita” (per non usare il termine “sconfitta”) degli americani – e che non ci sarebbe stato nessun attacco all’Iran perché Washington non era in grado di sostenerlo – eravamo soltanto degli scorbutici antiamericani?

Ah, come non ricordare il lordume che precipitarono addosso a coloro che paragonavano l’Iraq al Vietnam! Vogliamo fare qualche nome (in ordine alfabetico)? Magdi Allam? Silvio Berlusconi? Gianfranco Fini? Corrado Guzzanti? Dalla G in poi continuate voi.
Siamo stati tacciati d’essere una quinta colonna al servizio del nemico – i Quisling del terzo millennio – soltanto perché osservavamo la realtà senza le pelli di salame agli occhi. Non ho mai gioito per la morte dei militari americani – e nemmeno per quella dei guerriglieri iracheni – tanto meno per quella dei nostri poveri soldati. Tutte vittime, indistinte, massacrate come un lunedì qualunque nel macello comunale di una grande città.

Di quale peccato saremmo colpevoli – vossignorie – per aver annunciato per tempo la cronaca di una tragedia annunciata, quando vedevamo giorno dopo giorno aumentare il numero delle vittime da entrambe le parti? Siamo colpevoli per non aver creduto nei “chiari segni di vittoria” che emanavano – dai loro sogni – Bush e la tristissima cricca dei neocon americani?
Vietnam, scrivemmo, e dal Vietnam si riparte.
Strana nemesi – o forse appena un contrappasso – quello del vertice ASEAN che si è svolto ad Hanoi nei giorni scorsi, con un Bush obbligato a tessere le lodi ai “saggi” comunisti vietnamiti per non essere stato capace di fermare l’atomica coreana.

Strana comparsata, nella terra ancora imbevuta dal napalm americano, di un presidente USA azzoppato come non mai – in Patria ed all’estero – con Putin e Hu-Jin-Tao che si concedevano qualche lazzo per la scoppola elettorale. I risultati: deludenti. Appena un accenno anti-europeo per l’eccessiva protezione degli agricoltori nel Vecchio Continente ed una velata – ma sdentata – minaccia: più del 50% del commercio mondiale si svolge oramai fra le sponde del Pacifico, e Bush ricorda d’avere qualche migliaio di miglia di coste bagnate dalla stessa acqua, più qualche atollo sperduto in mezzo all’infinità liquida.

Un Bush oramai senza artigli perché non è lui l’attore protagonista della rappresentazione – il beneficiario dei frutti di quel 50% – bensì il cinese che ha come “spalla” il russo dagli occhi di ghiaccio. Questa è stata l’unica risposta diplomatica di George Bush II dopo la scoppola elettorale e le ultime news dall’Averno iracheno: un giocatore che esce dal campo di calcio, sostituito perché inefficace, che si galvanizza scartando un raccattapalle.

Per capire la differenza fra le due situazioni – il vero Vietnam ed il nuovo Vietnam iracheno – dovremmo ricordare cosa avvenne quasi in contemporanea alla rovinosa fuga dal Vietnam: l’ignominia di Timor-Est.
A quel tempo – davanti o dietro alle quinte – c’era a reggere il timone della strategia americana un certo Henry Kissinger: la volpe astuta e sanguinaria del Cile e di tante altre malefatte americane nel pianeta.
Difatti, anche il vecchio Kissinger si è fatto vivo proprio in questi giorni per ricordare al rampollo Bush “che non si può scappare alla chetichella”: evidentemente, il vecchio macellaio conosce bene il pollastro che abita in Pennsylvania Avenue, è al corrente di quanto sa apparire forte sui media e tremebondo in politica estera.

La sconfitta in Vietnam fu l’amaro risveglio di un’America che si credeva invincibile, ancora cullata dalle glorie della guerra mondiale, ma Kissinger sapeva che la partita continuava. Perso il Vietnam? Bene: ci rimangono Taiwan, Okinawa, le Filippine, la Corea del Sud…
Già, il sud: proprio a sud – con la perdita di Saigon – c’è un fianco scoperto. Oddio, proprio “scoperto” non è – visto che il generale Suharto indonesiano ci è fedele come un Pluto a Pippo – ma non possiamo correre inutili rischi.
Così, il Presidente Ford ed il suo scagnozzo Kissinger preparano un bel regalo natalizio per il generale indonesiano: Timor-est, antica colonia portoghese.

I portoghesi, dopo la rivoluzione democratica del 1974 che aveva scacciato Marcelo Caetano, avevano concesso eguali garanzie democratiche alla ex colonia: non capiterà – pensarono a Washington – che anche in quel remoto angolo dell’Oceano Indiano giungano i guerriglieri cubani come in Angola?
Detto fatto: il 7 dicembre (anniversario di Pearl Harbour?) su Dili si scatena la rabbia dell’aviazione e dei paracadutisti indonesiani: 60.000 morti, passati sotto silenzio dall’ONU, dalle potenze europee e da tutti i media.
Per anni continuano i rifornimenti d’armi americani all’Indonesia per tenerla aggrappata al carro statunitense e non si lesina né in cannoni né in coperture diplomatiche: perduto un pezzo del domino, non sia mai che un altro bastione cada.

Tutto ciò causa decine di migliaia di vittime? E che gliene importa a Washington? Basta garantirsi la fedeltà dei generali indonesiani.
Il disastro andrà avanti fino al 1999 – quando sarà inviata una forza multinazionale di protezione – ma non voglio dilungarmi troppo su una vicenda sulla quale hanno scritto grandi penne internazionali – Noam Chomsky in primis – perché si tratta di uno solo dei tanti massacri compiuti dagli USA nel pianeta. Un assaggio?
Cina 1945-49, Grecia 1947-49, Filippine 1945-53, Corea del Sud 1945-53, Albania 1949-53, Iran 1953, Guatemala 1953-anni 90, Medio Oriente 1956-58, Indonesia 1957-58, Vietnam 1950-73, Cambogia 1955-1973, Congo/Zaire 1960-65, Brasile 1961-64, Repubblica Dominicana 1963-66, Cuba 1959 fino ad oggi, Cile 1964-73, Grecia 1964-74, Timor Est 1975, Nicaragua 1978-89, Grenada 1979-84, Libia 1981-89, Panama 1989, Iraq anni 90 ,El Salvador 1980-82, Haiti 1987-94, Jugoslavia 1999.[1] Il 29 di novembre cade l’anniversario del Fiume Sand Creek: i Lakota non hanno mai dimenticato.

Ciò che colpisce è la differenza fra le due situazioni: sappiamo che la politica estera è spesso un bagno di sangue innocente, ma testimonia la capacità reattiva di una nazione che si confronta nello scacchiere planetario.
Quali sono le attuali mosse di Bush II in politica estera?

Urlare ai quattro venti che l’atomica coreana è una bestemmia e poi stare a guardare mentre Pyong-Yang la presenta al mondo? Votare le sanzioni contro la Corea del Nord all’ONU, per poi “beccarsi” gli sberleffi di chi già afferma che non le rispetterà? Minacciare gli iraniani di terribili ritorsioni quando sa benissimo di non poter far nulla? Affiancare Israele nella sua prima sconfitta nello scacchiere medio-orientale? Sostenere la Georgia mentre Putin si permette di sottoporla al blocco aereo, terrestre e navale? Inviare messaggi di speranza agli “arancioni” ucraini che – per avere il gas per l’inverno che è alle porte – hanno dovuto “sdoganare” un premier gradito a Mosca? Sobillare la guerra civile in Libano, dimenticando che Hezbollah – se ha fermato Tzahal – non ci metterebbe molto a sconfiggere la fazione minoritaria cristiano-maronita, priva di armamento (Jumblatt vendette tutto in Jugoslavia, qualcuno lo ricorda?) e più abituata a far soldi che a crepare nella polvere?

Non ci sembra che Bush II sia una gran “aquila” della politica internazionale: non è certo un Cesare né un Metternich, tanto meno un Churchill od uno Stalin. Qui non basta nemmeno il “Tapiro d’oro”, qui – per “premiare” i suoi meriti – non basterebbe nemmeno un premio “Pico della Mirandola” al negativo, una sorta di Ignobel della politica internazionale. Ma come si è giunti a tanto?
Forse qualcuno immaginava – “aggiustando” le elezioni del 2000 – che avrebbe regnato Bush I il Vecchio, e che il rampollo sarebbe stato soltanto fotografato mentre saliva e scendeva dall’elicottero con il cane in braccio?

Sarebbe allora interessante indagare il rapporto esistente fra i due monarchi: Bush I il Vecchio e Bush II il Giovane, per capire quali sotterranee pulsioni si siano scatenate nel giovane. Emulazione? Presunzione eccessiva? Un rapporto edipico non risolto?
Terribile vicenda, quando un monarca inetto sale al trono: Giorgi inglesi e Vittori italiani, e poi Luigi, Filippi, Nicola, russi, spagnoli, francesi…
Niente da fare: quando un monarca si ritrova con un primogenito imbecille non ha scelta. Un tempo poteva esistere la scappatoia di una morte onorevole in battaglia, od il meno decoroso veleno di corte, oggi – purtroppo – il garantismo assoluto protegge anche i Delfini più inetti.

La “chiave” della vicenda personale di George Bush II è più materia da strizzacervelli che analisti strategici: un deludente Parsifal è stato chiamato a scrivere l’irriverente necrologio per la casata dell’Arbusto[2] che nasce dal pozzo. Di petrolio.
Se il padre – forse non imperatore ma almeno mediocre re – meditò di fermarsi alle porte di Baghdad quando il truce Saladino era ormai sconfitto, perché il giovane ha osato?
Forse per mostrarsi migliore agli occhi della madre? Sono io il tuo vero cavaliere – mamma – non quel vecchio bacucco. Gli psicologi capiranno di cosa sto parlando.

Sì, perché il vecchiaccio aveva ricevuto dal cielo tutte le benedizioni: il Turco era oramai una preda inchiodata alle porte di Samarcanda, mentre nessun aiuto poteva giungere dal nord, nessun Tamerlano-Gorbaciov s’appressava all’orizzonte. Altro che il piccolo cosacco dagli occhi di ghiaccio che io mi sono ritrovato fra i piedi.
Eppure il pavido tentennò: troppo grande il rischio di scatenare le orde dei Persi contro Atene? Forse.
Il giovane pilota part-time della Guardia Nazionale – mentre sorseggiava Top-Gun e mangiava noccioline – non riusciva a comprendere la ragione di tanta codardia: perché – o padre mio – non mostri al Turco nella polvere tutta la potenza del tuo braccio, il vorticare della tua spada?

Allora, sarò io – mamma – a “completare il lavoro”: sarò ricordato come l’eroe delle Termopili, il braccio d’Achille e l’occhio d’Ulisse. Non avrò pietà né tentenno di fronte alla prova: peccato che – mentre lui continuava a mangiare noccioline ed a sorseggiare We were soldiers – a crepare ci sono andati i figli dei poveracci dell’America, quelli che il “sogno americano” l’avevano sempre visto in cartolina.
Che tremenda sciagura quando una grande casata genera un pollone rigoglioso ma dal gambo fragile, costretto a piegarsi alla prima brezza! Sarà per questa ragione che i re – oramai – regnano quasi esclusivamente nel mazzo delle carte?

Carlo Bertani bertani137@libero.it www.carlobertani.it


[1] A Brief History of United States Interventions, 1945 to the Present (Una breve storia degli interventi degli Stati Uniti, dal 1945 al presente) di William Blum, traduzione di Natascia Berlincioni su http://www.zmag.org/articles/blum.htm
[2] In inglese, Bush.

 
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