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Quanto potrà ancora resistere Bush in Iraq?
di Carlo Bertani – Disinformazione.it  
[24 agosto 2005]

Molti analisti davano per spacciato il Presidente USA, nel suo confronto con Kerry, a causa dello stillicidio di vittime che giungeva (e giunge) dall’Iraq, mentre così non è stato: le perdite subite in Iraq non influenzano dunque più l’elettorato americano?
Per comprendere questa apparente stranezza dobbiamo abbandonare la meccanica sovrapposizione della situazione irachena con il Vietnam, giacché – se la situazione sul campo di battaglia è pressappoco la stessa – sono cambiati, negli ultimi trent’anni, molti aspetti della società americana.
Per prima cosa esisteva, in quegli anni, un forte movimento d’opinione contro la guerra: ovvero, i reduci diventavano spesso l’emblema vivente del rifiuto. Ma, domandiamoci: chi erano quei reduci?
Erano i figli della classe media americana: il primogenito del droghiere all’angolo, il nipote del venditore d’auto usate, ossia carne e sangue dell’America che ogni domenica va in chiesa e che non perde una partita di baseball.
Tornati a casa (non a caso, uno dei migliori film sul Vietnam – scomparso dai palinsesti televisivi – si chiamava proprio Coming home), i reduci incontravano fratelli e sorelle, parenti ed amici ed il loro dolore, la loro disperazione s’espandeva a macchia d’olio nel ventre profondo degli USA, dalle pianure del Kansas alle Montagne Rocciose.
Proprio le grandi pianure centrali sono state, invece, il serbatoio di voti per Bush, la spinta che lo ha condotto nuovamente alla Casa Bianca. Cos’è mutato?

Semplice: l’esercito USA è oggi un esercito professionale, composto in larga misura da ispanici e neri che provengono dalle classi più povere degli USA, soprattutto dagli slums delle sconfinate periferie urbane.
Tornando a casa, i feriti, i mutilati dall’orrore iracheno incontrano gli altri diseredati dei ghetti, ma non riescono – a differenza dei loro predecessori del Vietnam – a costruire un movimento politico di protesta. Già Marx definì Unproletariat il sottoproletariato incapace di formulare una proposta politica, giacché privo degli strumenti d’aggregazione tipici del proletariato: la fabbrica, il sindacato, le Leghe dei lavoratori, ecc.
I giovani americani degli anni ’60-70 non erano certo proletari di marxiana memoria, ma avevano anch’essi validi strumenti d’aggregazione e confronto – soprattutto i campus universitari – dove esistevano centri di raffinata analisi politica.
La nuova guardia pretoria americana può dunque andare al massacro in Iraq senza che nessuno – negli USA – riesca a prendere le difese della carne umana macellata? Certo, le madri dei soldati uccisi s’accampano all’ingresso del ranch dei Bush – e i media ne danno notizia, Joan Baez torna a cantare per loro – ma queste iniziative individuali riescono a malapena a scalfire il teorema “11 settembre = guerra in Iraq” che il Presidente ripete come un mantra.
Paradossalmente – più il tempo passa – più i soldati USA trovano appoggi nell’ultimo luogo dove potremmo aspettarcelo: dalle parti della Virginia, ovvero al Pentagono.

Per carità: non si tratta certo d’ascoltare da Rumsfeld un proclama pacifista, ma c’è un limite nel mandare i soldati al macello, un limite che i generali conoscono bene e che in questi anni nessuno ha menzionato.
Un esercito professionale regge se sono garantite alcune regole basilari della guerra; ovvero: può anche succedere di lasciarci la pelle, ma deve trattarsi di un fatto sporadico, non ovvio come sta succedendo in Iraq.
In altre parole, gli USA – dopo il Vietnam – s’accorsero che un esercito di leva era inutile per le sanguinose avventure nel pianeta, ed era altrettanto inadeguato (e costoso) per lo statico confronto con i sovietici.
Da qui la decisione: pochi soldati, ben equipaggiati ed ottimamente addestrati, sono quel che serve per brevi e micidiali puntate offensive (Granada, Panama, ecc); anche per gestire la guerra tecnologica – soprattutto in Aviazione ed in Marina – servono specialisti preparati ed esperti.
Qual è il tallone d’Achille di un esercito professionale? Il numero dei soldati che – per esigenze di bilancio (un soldato professionista costa dieci volte un suo collega di leva) – deve ridursi drasticamente.

Nella transizione italiana dall’esercito di leva a quello professionale sono state cancellate decine di divisioni: la storia militare italiana è stata mandata in pensione, tanto è vero che – oltre ai soliti nomi, San Marco, Folgore, Granatieri di Sardegna e pochi altri – non c’è più nulla.
Durante la guerra del Kossovo, gli USA si guardarono bene dall’oltrepassare la frontiera serba: il bagno di sangue che sarebbe stato necessario per conquistare Belgrado – nonostante la supremazia aerea – sarebbe stato terribile. In quel caso, bastò la guerra aerea – ovvero i bombardamenti terroristici su Belgrado (più di 1.200 vittime civili) – per piegare l’avversario.
In Iraq hanno copiato – sin nei minimi particolari – il copione serbo ma la cosa non funziona: a Falluja gli USA hanno sganciato ogni sorta d’ordigno – come del resto fecero in Vietnam – ma la carneficina di civili non ha avuto altro effetto che quello di spostare ancor più larghi strati della popolazione dalla parte della guerriglia.
La differenza rispetto al Kossovo – una tragica differenza per gli USA – è che in Iraq ci sono truppe americane a terra, che possono diventare bersagli: la dichiarazione della fine delle ostilità – comunicata da Bush nel lontano maggio del 2003 – era probabilmente ammissibile, ma non aveva fatto i conti con il vespaio iracheno.
Gli USA non s’attendevano una resistenza così ostinata (sorretta da copiosi aiuti stranieri), ed hanno usato uno strumento inadeguato (l’esercito professionale) in una situazione dov’era controindicato per la sua scarsa consistenza numerica.
Ad oggi, gli USA hanno perduto circa 2.000 uomini – fra Iraq ed Afghanistan – che su un contingente intorno ai 150.000 uomini non può certo essere considerato un macello; dimentichiamo però un secondo fattore: i feriti.

A quanto ammontano – in guerra – i feriti rispetto ai decessi? Dipende, ovviamente, dal tipo di guerra.
Molto empiricamente potremmo affermare che, più la guerra è tecnologica, più scende il numero dei feriti rispetto ai morti. Il numero dei feriti aumenta enormemente – invece – nel suo estremo opposto, ovvero nella guerra di guerriglia.
Potremmo citare alcuni esempi: nella “tecnologica” battaglia dell’Atlantico, i sopravvissuti furono pochissimi. Dall’affondamento della corazzata Hood, su circa 1.300 uomini d’equipaggio, se ne salvarono 2. Sui 2.000 circa della Bismarck una quindicina. Dopo i raid aerei su Falluja furono trovati pochissimi feriti, mentre la popolazione civile che non era fuggita fu quasi completamente uccisa.
Man mano che la guerra lascia mare e cielo e scende a terra, invece, il numero dei feriti aumenta enormemente, giacché la stessa granata che piove su una compagnia in movimento può ucciderne alcune unità, ma ne ferisce decine a causa della propagazione delle schegge.
Ancor peggio se la formazione che attacca utilizza strumenti primitivi – bombe “artigianali” od esplosivi usati da mani inesperte, come in Iraq – giacché la scarsa potenza distruttiva dell’ordigno non provoca spesso la morte, bensì orrende ferite e mutilazioni.
Spesso – nel valutare la gravità della situazione irachena – ci arrestiamo di fronte al numero dei decessi e dimentichiamo che i feriti in guerra non sono paragonabili a quelli degli incidenti stradali, casalinghi o sul lavoro. La determinazione d’uccidere l’avversario conduce ad ottimizzare l’arma per colpire; ecco allora che gran parte dei feriti – scampati miracolosamente alla morte – scontano gravi mutilazioni: perdita di arti, della vista e dell’udito, paralisi degli arti inferiori, mutilazioni interne o nella zona genitale sono le diagnosi più frequenti.

I feriti – dopo un primo sollievo per essere sopravvissuti – iniziano spesso un calvario fatto di lunghi e ripetitivi interventi chirurgici, interminabili rieducazioni motorie e spesso non giungono mai a recuperare totalmente la funzionalità del corpo.
Accade proprio questo in Iraq? Le fonti americane – sul computo delle perdite – sono estremamente reticenti: una giornalista fu licenziata in tronco per aver diffuso la fotografia di una fila di bare coperte dalle bandiere.
Per avere qualche cifra attendibile bisogna rivolgersi a qualche “gola profonda”, oppure a chi si lascia sfuggire notizie “confidenziali”: ovviamente, bisogna prestare molta attenzione alla fonte, giacché la guerra coinvolge anche i media.
Gene Bolles può essere considerato una fonte attendibile, giacché non è un militare ma solo un neurochirurgo che – dopo l’11 settembre – decise di prendere un periodo d’aspettativa dall’ospedale nel quale lavorava per curare le vittime della guerra: fu destinato a Landstuhl, in Germania, dove – nei pressi della grande base NATO di Genschelkirken – sorge un importante ospedale militare americano.
Nonostante il trascorrere dei decenni, sono le stesse “rotte del dolore” che percorsero i feriti del Vietnam: da Da Nang ad Aviano, da Genschelkirken alla Virginia.

Il dottor Bolles, 63 anni – per la sua esperienza – fu nominato primario del reparto di neurochirurgia a Landstuhl ed ha ricoperto quella carica fino alla scadenza del suo mandato, ovvero fino al febbraio del 2004.
Per appartenenza generazionale – però – il dottor Bolles fa parte della generazione del Vietnam, ovvero di chi aveva ed ha gli strumenti critici per capire cosa stava accadendo, e ciò che vide a Landstuhl non gli piacque, non gli piacque per niente.
Quando decise di concedere un’intervista a Lakshmi Chaudhry – un giornalista di Alternet – sapeva cosa stava facendo, e soprattutto era conscio – dopo aver visto tanto orrore – di sconfessare le verità ufficiali di Washington.
Anzitutto le cifre: alla scadenza del suo mandato, il Pentagono aveva comunicato che i feriti in Iraq ed Afghanistan erano 7.500. Com’era possibile se – solo a Landstuhl – ne erano giunti circa 20.000?
Non finisce qui: in alcuni documenti riservati, il dottor Bolles vide riportata la cifra ufficiale di 33.000 feriti. Le domande d’invalidità erano 26.000, quelle d’assistenza psichiatrica circa 10.000: numeri da capogiro, altro che le cifre di Rumsfeld.
Qualcuno mente? Ovvio che sì, ma c’è una perfidia tutta militare in queste menzogne.

La qualifica di “ferito in combattimento” viene attribuita soltanto a chi viene offeso direttamente dal fuoco nemico, ovvero colpito da un proiettile, dalle schegge di una granata, ecc. Se la stessa granata rovescia il camion dove viaggiavano altri militari, e questi riportano ferite nel ribaltamento del mezzo, questi non sono conteggiati fra i feriti in combattimento, ma per “incidente”. Capito l’arcano?
Bisogna quindi prestare molta attenzione anche alle cifre italiane, quando comunicano morti e feriti per “incidenti”, “fatalità”, “fuoco amico” ed altre denominazioni.
L’altissimo numero dei soldati che hanno chiesto assistenza psichiatrica non è un maldestro tentativo di “marcar visita”: il dottor Bolles testimonia di moltissimi feriti sconvolti per quello che avevano visto.
Non si tratta – come si potrebbe frettolosamente pensare – d’aver visto “la morte in faccia” (che potrebbe anche bastare…) ma delle atrocità commesse anche nei confronti del nemico. Un giovane raccontò dell’orrore provato quando il tank sul quale viaggiava “macinò” con i cingoli alcuni soldati iracheni (vivi) in una trincea.
Il numero delle lesioni alla colonna vertebrale è impressionante – continua il medico – e fa pensare a moltissimi “incidenti stradali” causati dalle bombe rudimentali che i guerriglieri depongono ai bordi delle strade quando passa un convoglio americano.
Iniziano ad essere molte migliaia i ragazzi americani che non lasceranno mai più la sedia a rotelle e – complici le ristrettezze di bilancio – non riceveranno negli USA la giusta riconoscenza (economica ed assistenziale) per il servizio prestato: c’è da presumere che il trattamento che riceveranno sarà ancora peggiore di quello che rappresentò sullo schermo Tom Cruise nel film “Nato il 4 luglio”.

Dall’aprile del 2004 sono trascorsi 16 mesi, quasi un anno e mezzo, e le perdite “ufficiali” USA hanno superato le 2.000 unità. Siccome un anno e mezzo fa non avevano ancora superato la psicologica “quota mille” – se la statistica non è un’opinione – dovremmo ipotizzare che il numero dei feriti sia raddoppiato, ovvero che stia rasentando le 60.000 unità.
Ovviamente, una parte dei feriti torna a combattere, ma dopo molti mesi di convalescenza e con l’animo turbato, la psiche scossa, i nervi a fior di pelle per aver visto veramente la morte in faccia.
60.000 unità rappresentano quasi la metà del contingente USA inizialmente dispiegato in Iraq (135.000 uomini): non sappiamo quanti di quei 60.000 sono tornati a combattere, ma non sono certo la maggioranza, come testimonia il dottor Bolles al riguardo della gravità delle ferite.
Tutto ciò concorda in pieno con la campagna d’arruolamento che – negli USA – trova sempre meno orecchie che ascoltano: addirittura, il Presidente stesso si reca frequentemente a salutare i contingenti in partenza per l’Iraq (ormai composti quasi esclusivamente da riservisti), a testimoniare quanto sia difficile per Rumsfeld trovare altra carne da macinare sulle strade irachene.
Velatamente, inizia a far capolino la richiesta di tornare alla leva obbligatoria – e la novità conferma in pieno le nostre analisi – ma la leva obbligatoria riporterebbe indietro le lancette del tempo: i figli della classe media americana ritornerebbero nuovamente a casa nei sacchi di plastica, ed i feriti a protestare vivacemente. Probabilmente, torneremmo ad osservare cortei di reduci che lanciano le medaglie nel giardino della Casa Bianca.

Una soluzione? Ormai non rimane molto tempo, ed anche le velleità americane sull’Iran e sulla Corea del Nord non potranno andare oltre la guerra aerea: Bush potrà bombardare l’Iran per mesi – se lo riterrà necessario – ma non potrà inviare un solo soldato.
Dubitiamo che tenterà un simile azzardo, anche perché gli iraniani hanno minacciato di bloccare la navigazione nel Golfo Persico colpendo con i modernissimi e micidiali missili russi Mosquit le petroliere in transito: in quel malaugurato caso, il prezzo del petrolio non salirebbe più un dollaro alla volta, ma schizzerebbe all’insù di decine.
Inoltre, che fine farebbe il già “tiepido” appoggio che parte degli sciiti iracheni forniscono agli americani, dopo un attacco alla patria dell’Islam sciita, ovvero l’Iran?
Siamo ormai, da qualsiasi angolazione si desideri osservare la vicenda, alla frutta; l’Iraq è stato – per gli americani – non un Vietnam, bensì quello che fu l’Afghanistan per i sovietici: una lunga guerra di logoramento che ha messo alla prova i numeri della potenza bellica americana. In primis i soldati uccisi e feriti, che rappresentano oggi circa un quarto delle forze combattenti dell’US Army. L’usura e la distruzione di materiali e mezzi, inoltre, è andata oltre ogni ragionevole previsione: i fanti americani hanno chiesto pubblicamente a Rumsfeld – durante un incontro avuto in Kuwait, faccia a faccia – perché devono recuperare pezzi di blindatura dai corazzati semidistrutti per riparare i tank danneggiati, perché la grande America non invia loro carri armati Abrahams e Bradley nuovi di zecca.

Rumsfeld non ha fornito risposte esaurienti, ma questi campanelli d’allarme sono meditati ed interpretati dai generali – non dai politici – ed i frutti non tarderanno a mostrarsi.
Una soluzione? Trincerarsi nelle basi aeree irachene che gli USA occupano (come hanno fatto gli italiani a Camp Mittica) – dove potranno rimanere indisturbati, protetti dall’aviazione – per non dover pronunciare anzitempo la parola “ritiro”.
Una simile soluzione – però – significa l’abbandono dei campi petroliferi e degli oleodotti, che sono una delle principali ragioni che hanno scatenato la guerra: inoltre, possiamo facilmente immaginare che ne sarà del governo coloniale iracheno senza le truppe americane di protezione.
Il coinvolgimento d’altri paesi (leggi: Francia, Germania e Russia) per controllare l’Iraq condurrebbe inevitabilmente a dover “ridistribuire” la “torta” petrolifera – ovvero tornare alla situazione dell’anteguerra – quando Francia e Russia controllavano il 90% della produzione irachena, e per Bush sarebbe una grave sconfitta interna nei confronti delle compagnie petrolifere che lo appoggiano. Inoltre, una simile débacle non sarebbe sostenibile a livello politico, e confinerebbe gli USA nell’angolo degli sconfitti.
Quando Custer fu sconfitto da Cavallo Pazzo, Washington inviò immediatamente Miles che – con i cannoni – distrusse il popolo Oglala: oggi, nella medesima situazione, non ci sarebbe un solo soldato da inviare sul Little Big Horn. Oramai, non rimane che asserragliarsi nel forte, sprangare le porte e prendere tempo nell’attesa di (poco probabili) tempi migliori, nei quali lasciare le sabbie irachene in sordina: possibilmente, senza che i media possano schiaffare sui monitor del pianeta le immagini del 1975, quando si bruciavano le bandiere per non farle cadere in mano ai vietcong e si gettavano gli elicotteri dai ponti delle portaerei per far posto ad altri fuggitivi.

Carlo Bertani    

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