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Entriamo in punta di piedi nella terza guerra mondiale
di Carlo Bertani - 17 dicembre 2006

“Questo mucchio di cadaveri proclama un macello. 
O orgogliosa Morte! Quale festa si prepara nell'eterno tuo antro, che tanti principi a un sol colpo così sanguinosamente hai abbattuto?”
William Shakespeare - Amleto

Dopo la sconfitta elettorale di George W. Bush, qualcuno potrebbe essere persuaso che i rischi per la pace planetaria siano drasticamente ridotti, come se il Presidente americano fosse l'unico artefice della strategia globale di guerra, finalizzata a definire i nuovi rapporti economici internazionali ed il conseguente accaparramento delle risorse energetiche.
Oggi, dicembre 2006, assistiamo al crollo del castello di carte costruito dai neocon americani: Rumsfeld ha lasciato il Pentagono e Bolton l'ONU. Due importanti pedine dell'amministrazione di destra americana sono state sacrificate ai democratici dopo la sconfitta elettorale, ma non cadiamo nell'errore di credere che Baker ed i democratici chiamati al “capezzale” dell’Iraq siano delle colombe.

Giustamente, il Ministro italiano degli Esteri D'Alema ha scorto in quei mutamenti interni agli Usa il passaggio dall’unilateralismo dei neocon ad una nuova fase, più vicina al multilateralismo che fu di Clinton.
Non dimentichiamo, però, che quella fase – nella quale Europa e Stati Uniti furono più vicini per gestire i destini del pianeta, come nei Balcani – fu anch'essa una stagione di guerra, anzi: proprio nei Balcani iniziarono ad essere evidenti alcune fratture fra gli Usa e la Francia , la Russia e la Cina.

Ricordiamo che – appena sette anni or sono – diciotto aviazioni europee più quella statunitense non esitarono a bombardare la Serbia per due mesi, dove furono uccisi dalle bombe della NATO 1.200 civili serbi.
Il grande sogno americano di dominare solitari il pianeta è dunque andato in frantumi: non per questo, però, possiamo credere che Washington ceda le armi e s’appresti a chiudersi in sé stessa, ossia a varare una nuova fase isolazionista. Nel pianeta della globalizzazione dei mercati, chi si ferma è perduto.

I prossimi due anni della presidenza Bush – il cosiddetto “regno dell'anatra zoppa” – saranno utilizzati per ricostruire i rapporti fra le due rive dell’Atlantico: consapevoli di non poter raggiungere l'obiettivo in completa solitudine, gli Usa cercheranno nuove alleanze per realizzare i medesimi risultati.
D'altro canto, nemmeno l'Europa desidera che gli Stati Uniti abbandonino lo scenario geopolitico mondiale: l'assenza di Washington dalla scena comporterebbe per Bruxelles un impegno che l'Europa, oggi, non è in grado di reggere.

Cosa possiamo ragionevolmente attenderci dalla nuova situazione?
Se Washington, come sembra, abbandonerà le posizioni unilaterali sposate negli ultimi cinque anni – e sarà disposta ad accettare dei compromessi che riguardano soprattutto la partita mondiale dell'energia – l'Europa sarà obbligata a cercare dei compromessi politici interni a tutti gli stati dell'Unione – di qualsiasi tipo sia il governo, di destra o di sinistra – per raggiungere un punto d'incontro con gli Usa.

Non a caso, proprio negli stessi giorni, l’UDC si smarca dall’alleanza di centro destra e si rende disponibile per nuovi scenari: no a Prodi ma “nessuna preclusione” (parole di Casini) nei confronti di Massimo D’Alema.
Il vecchio professore non potremmo mai accettarlo – sembra raccontare Casini – perché legato ad un’idea d’Europa che mantiene una sostanziale indipendenza dalle scelte USA: il “bombardiere di Belgrado”, invece – per aver dimostrato in quell’occasione tutta la sua spregiudicatezza – consentirebbe quel governo di “larghe intese” senza l’estrema sinistra, il quale troverebbe ampio consenso nei nuovi Stati Uniti “liberati” dall’ingombrante presenza di Bush.

Il nuovo scenario sposta alle calende greche tutte le fumose ipotesi di “Eurasia”, ossia alleanze strategiche di lungo periodo con la Russia ed altri partner orientali (non del tutto sgradite a Prodi): un'Europa isolata non può correre il rischio di future alleanze strategiche tra Washington e la Cina , l'India, la stessa Russia.
Il terremoto politico conseguente alle elezioni di medio termine americane e dunque qualcosa di più della semplice sconfitta di Bush, bensì è un importante giro di boa nei rapporti politici internazionali.
Uno dei frutti della politica unilaterale americana è stato senz'altro il rafforzamento del cosiddetto “asse orientale”, ossia dei paesi appartenenti al patto di Shanghai, che negli ultimi mesi ha assunto sempre di più la forma di un nuovo “patto di Varsavia” in chiave antiamericana.

Una forte alleanza orientale spaventa Bruxelles, al punto che alcuni stati europei – Francia e Italia in primis – non hanno esitato ad inviare i propri contingenti di truppe in Libano per “raffreddare” una situazione che appariva sempre più problematica per Israele e, in definitiva, per gli Stati Uniti stessi.
Consapevoli dello sforzo compiuto dall'Europa per venire in loro soccorso dopo la sciagurata guerra in Libano, gli USA oggi affermano – per bocca del nuovo Segretario alla Difesa, Gates – che una guerra contro la Siria “non è più in agenda” ed un eventuale scontro con l'Iran è da ritenere “molto improbabile”, una soluzione “da ultima spiaggia”. Miele, per le orecchie europee.

In altre parole, sia a Bruxelles e sia a Washington ci si è resi conto d'essere andati troppo oltre nello scontro con il “blocco orientale”: ne sono testimoni i molti accordi commerciali e soprattutto militari fra Mosca, Pechino, Nuova Delhi e Teheran.
L'ostinazione di Bush nei confronti dell’Iraq e dell'Afghanistan ha addirittura permesso all'America Latina di smarcarsi dal perfido gioco che la relegava ad essere soltanto il cortile sul retro degli Stati Uniti: Venezuela e Bolivia viaggiano oramai verso scenari da socialismo reale, mentre l'Argentina – dopo la grave crisi economica – guarda anch'essa con scarsa fiducia verso Washington. Non possiamo però nasconderci che il vero “regista” del distacco del continente sudamericano da quello nordamericano è il presidente brasiliano Lula, che è alla guida dell’economia più dinamica del continente: ad oggi, l'unica nazione che sembra ancora conferire fiducia a Washington è la Colombia.

Una situazione nella quale le periferie del pianeta stanno sfuggendo al controllo del centro il quale, a sua volta – proprio a causa delle sue divisioni – non ha più potenti strumenti economici e militari per riconfermare una sorta di controllo neocoloniale sul cosiddetto terzo e quarto mondo.
Si tratta – per Bruxelles e per Washington – di un gioco che è giunto ad una soglia molto pericolosa: oltrepassato un confine, potrebbe non essere più possibile ricostruire il gioco di alleanze edificato dopo la seconda guerra mondiale; quelle alleanze che consentirono di raccogliere, ancora per molti anni, i frutti della passata stagione coloniale.

L'obiettivo del prossimo biennio sarà dunque quello di raffreddare la corsa del prezzo del petrolio, per non vanificare i frutti di una debolissima crescita economica: potremmo anche ragionevolmente attenderci interventi sui cambi, per rallentare la corsa dell'euro e scongiurare un eventuale crollo della moneta americana.
Una nuova stagione d'amore attende quindi Bruxelles e Washington, una fase nella quale saranno rivisti e riconsiderati i molti accordi – finanziari, industriali, militari – che la politica unilaterale di Bush aveva mandato in frantumi.

Tous va bien, allora? Sono definitivamente scongiurati i rischi di un'esplosione in Medio Oriente? La corsa militare per accaparrarsi i pozzi di petrolio appartiene oramai al passato? Il sogno del Nuovo Medio Oriente è definitivamente svanito?
Non è un caso se il piano appena redatto per uscire dall’Iraq, con la partecipazione dei democratici, prevede il definitivo sganciamento dallo scenario iracheno per il 2008: guarda caso, l'anno nel quale si terranno negli Stati Uniti le prossime elezioni presidenziali.
Il 2008, però, non sarà un anno di cambiamento nei soli Stati Uniti: non sappiamo chi sarà (e se ci sarà) un nuovo inquilino al Cremlino; inoltre, anche all’Eliseo ci sarà un nuovo presidente (o presidentessa).

Difficile prevedere quali vie prenderà la politica cinese e quale coalizione governerà in India: possiamo soltanto ragionevolmente ipotizzare che dopo il 2008 prenderanno il via nuovi grandi giochi della politica internazionale.
Se cambiano gli uomini, le coalizioni e i governi gli obiettivi non mutano: nell'area del Golfo Persico è concentrato di 63% delle riserve petrolifere mondiali, pari a circa 50.000 miliardi di dollari, cinque volte il PIL USA. Il gas naturale è invece suddiviso approssimativamente per un terzo nel Golfo, un altro terzo in Russia ed il rimanente nel resto del pianeta.
In un fazzoletto di terra e mare relativamente ristretto, c’è la “cassaforte” petrolifera del pianeta, soprattutto se consideriamo che il rimanente 37% è disperso nel resto dei cinque continenti.

Può l’Europa non essere interessata al petrolio del Golfo Persico? No, non può perché l’estrazione nel Mare del Nord durerà ancora pochi anni e poi la “baracca” sarà chiusa per l’esaurimento dei pozzi. Stessa situazione negli USA e nel resto del pianeta: se non sono già scoppiate grandi guerre per il petrolio è soltanto perché il 37% del resto del pianeta fornisce ancora sufficiente estrazione di greggio, tale da compensare una politica troppo “invadente” dell’OPEC e dei paesi del Golfo.
La questione, però, non interessa soltanto il Medio Oriente: negli ultimi anni abbiamo constatato la sempre maggior insofferenza alle ingerenze USA d’alcuni paesi sudamericani, il loro allontanarsi da Washington. Dal Venezuela alla Bolivia, dall’Argentina all’Ecuador, ciò che muove grandi interessi economici contrastanti non è la questione della coca, bensì – più semplicemente – il controllo delle risorse energetiche di quei paesi.

Anche le attuali tensioni in Nigeria sono soltanto l’incresparsi di un mare che testimonia sotterranei sommovimenti: l’ingresso prepotente dei cinesi in quelle aree – s’accaparrano stock di petrolio senza sottilizzare troppo sul prezzo – e la sempre maggior importanza di Gazprom (primo gruppo, a livello mondiale, dell’energia) che muove i suoi tentacoli anche in Africa.
Se non bastava l’invasione dei prodotti orientali sui mercati occidentali, le stesse nazioni orientali si stanno muovendo nel pianeta per competere con i tradizionali gestori del mercato energetico e – grazie ai loro consistenti mezzi economici – stanno prendendo il sopravvento.

L’importanza di questi eventi farebbe pensare che l’Europa e gli USA abbiano “regalato” alla Russia ed ai paesi orientali – a causa della miope politica di Bush – un vantaggio troppo consistente per tentare un recupero che non contempli l’uso delle armi.
Ovviamente, altri fattori condizionano il quadro: il recente “via libera” all’ingresso della Russia nel WTO – “ingoiato” come un rospo da Bush durante il recente convegno dell’ASEAN ad Hanoi – significa probabilmente il ritorno della quotazione del rublo sui mercati internazionali (auspicata da Putin), che condurrà probabilmente al pagamento del gas siberiano in moneta russa (e quindi al suo apprezzamento nei confronti del dollaro).

Proprio i consistenti stock di dollari che detengono Cina e Russia sono un altro “jolly” che non sappiamo come, quando e se sarà giocato: in un quadro di deprezzamento della moneta americana rispetto all’euro, la vendita di quegli stock significherebbe un’ulteriore “tegola” che ricadrebbe su Washington.
In definitiva, “l’era Bush” sarebbe dovuta finire prima – con le elezioni del 2004 – ma non sapremo mai se le infernali macchinette elettorali della Diebold – schierate, a quanto pare, per Bush – non abbiano finito per favorire una ristretta classe dirigente e, contemporaneamente, per affossare un paese.
L’esigenza d’uscire dall’impasse è quindi essenziale per gli USA, ma se a Washington si piange a Bruxelles non si ride: questo è il grande rischio che correremo, un’alleanza che nasce dalla disperazione.

Nessuno dei paesi europei – uniti o divisi – è in grado di reggere il ritmo al quale viaggiano le “locomotive” asiatiche: né la Germania e né il Giappone possono nemmeno lontanamente pensare d’imitare gli apparati produttivi asiatici.
Se non bastava la grande produzione industriale cinese, non dimentichiamo che l’economia indiana si basa più sul know-how che sulla produzione materiale: un “mix” vincente per l’Oriente che consente ristretti margini di manovra all’Occidente.

Anche la situazione finanziaria – con centinaia di miliardi di dollari che riposano nelle casse statali dei paesi asiatici – non consente ricatti né “giochetti” d’alta finanza per recuperare il tempo (ed il predominio) perduto.
Una superiorità – è bene ricordarlo – che non affonda nella notte dei tempi: i cinesi inventarono la polvere da sparo e fino al 1.400 circa ci superarono nella produzione di metalli, particolarmente di quelli ferrosi.

L’handicap della Cina fu la dispersione del potere – una grande nazione con un “centro” debole – ma oggi sembra che abbiano proprio superato quel problema: l’unica grande nazione extraeuropea che non fu mai colonizzata, oggi presenta il conto alle ex potenze coloniali.
Molti analisti davano per scontata una guerra contro l’Iran: pur non potendola escludere a priori, non ci ho mai creduto molto ed ebbi il coraggio di scriverlo.
Una eventuale guerra all’Iran ed alla Siria avrebbe testimoniato la capacità statunitense di dominare ancora sulle mille tensioni (ed istanze) del pianeta. Così non è stato, e la “piccola” guerra in Libano ha avuto di certo un notevole influsso sulle scelte dell’amministrazione USA.

Non per questo, però, possiamo considerare la questione come definitivamente conclusa: è del tutto evidente – oramai anche all’informazione ufficiale, che a fatto finta per molto tempo di non accorgersene – che la vittoria è stata sì di Hezbollah, ma soprattutto dei suoi sponsor – Siria ed Iran – ed in definitiva dei loro protettori, Russia e Cina.
Tutto ciò cambia soltanto i tempi ed il livello dello scontro, non la sostanza: Cina ed India continuano a macinare miliardi producendo beni di consumo e tecnologia, la Russia fornendo tecnologia militare ed energia.

Dall’altra parte, ogni anno che passa sono sempre di più le aziende che si vedono surclassate da prodotti orientali: due guerre mondiali – non scordiamolo – sono state combattute per non consegnare alla Germania l’egemonia nella produzioni di beni d’alta tecnologia. La chimica, ancora oggi, parla tedesco e le uniche autovetture che mantengono sostanziali e stabili quote di mercato sono quelle tedesche.
Un’Europa vecchia, a causa della sua asfittica demografia, non riesce nemmeno ad accettare costanti flussi migratori per cercare di mantenere almeno stabile il rapporto fra le generazioni. Un’America credulona e sempliciotta torna invece ad interrogarsi sulle sue domande senza risposta: un gigante umiliato, dal Vietnam all’Iraq, che non riesce a trovare un perché.

Ci chiediamo cosa contengano gli accordi segreti di cooperazione in campo militare stipulati fra il governo Berlusconi ed Israele: novità eclatanti? Può darsi: personalmente, mi rammentano il “raggio della morte” mediante il quale il fascismo vagheggiava di vincere la guerra mondiale, o la bomba atomica di Hitler.
Le uniche certezze che consentono di confrontarsi nello scacchiere internazionale sono quelle che derivano dalla capacità di produrre beni e servizi in grado di conquistare i mercati: tutto il resto sono soltanto balle.

Non esistono società post-industriali nell’attuale sistema economico mondiale: sono soltanto società decadenti che sopravvivono alla belle e meglio, fin quando un qualsiasi Fortebraccio non deciderà d’entrare in Elsinore.
Dalla “alleanza dei volonterosi”, che doveva affiancare Bush in Iraq, si passerà probabilmente all’Armata Brancaleone dei desperados che cercherà di contrastare – nei prossimi decenni – lo strapotere orientale.

Potrebbe, una decisa inversione di tendenza in campo energetico, mutare la situazione?
Il passaggio alle energie rinnovabili avverrà certamente, poiché alla fine il petrolio terminerà, ma non sarà decisivo per le sorti dello scontro epocale verso il quale stiamo viaggiando. Fino ad oggi non sono mai decollate perché non garantiscono un sufficiente livello di controllo; troppo grande il rischio del “fai da te” in campo energetico: per il calcolo del “sacro PIL”, come la mettiamo?

La grande occasione perduta – se mai ci fu – sarebbe stata il passaggio da un sistema di produzione che favoriva l’accumulazione dei capitali ad un altro, che avrebbe dovuto consegnare nelle mani di molti le decisioni economiche: in altre parole, produrre beni utili e non vuota ricchezza.
Quel meccanismo economico chiamato capitalismo – che ebbe il grande merito di farci uscire dalle carestie e dalla grande scarsità di mezzi economici del Medio Evo – oggi è una macchina impazzita che deve creare sempre nuove schiere di consumatori e posti di lavoro, mentre l’uomo necessita di un insieme finito di beni e servizi. Le distruzioni di beni alimentari, eseguite per “non far crollare il prezzo”, insegnano.

Siamo giunti all’assurdo di non poterci più permettere delle reali cure ospedaliere per non mandare all’aria il bilancio statale: crepiamo malati, ma la cassaforte rimane intonsa. Molière preannunciò secoli fa con una metafora – ne “L’Avaro” – la nostra triste ed assurda situazione.
Eppure, quel semplice meccanismo economico – uno dei tanti fra i quali l’umanità può scegliere – si è man mano secolarizzato al punto da diventare un dogma: se oggi proponi una società dove si produce quel che serve – e non ciò che consente d’accumulare capitali – non vieni tacciato soltanto d’essere un comunista, sei considerato un pazzo.

Anche le mille alchimie sul valore delle merci – ricordo, a chi crede che l’abolizione del signoraggio sulle monete sarebbe il toccasana per tutti i mali, che già Marx ne parlò abbondantemente nel “Capitale”, accusando di quella truffa la Banca d’Inghilterra – non mutano il quadro di fondo. Pur essendo consapevole della truffa sul valore delle monete, essa non è altro che il simulacro di un reato ancora più vergognoso che viene perpetrato nei confronti delle nostre stesse vite: l’appropriazione e la mercificazione della vita stessa, reato incommensurabilmente più grave di qualsiasi truffa operata con la carta moneta.

Se non vogliamo finire nel buio pozzo del nuovo grande scontro per il predominio sul pianeta – la vera terza guerra mondiale – non basta cambiare il sistema d’approvvigionamento energetico, non è sufficiente riappropriarci del valore delle monete, bisogna riaffermare con forza che l’uomo è in grado di gestire gli eventi economici programmandoli, e non si venga a dire che perché una masnada di gerarchi con la stella rossa non ci è riuscita ciò non è possibile. Si fanno forti del fallimento dell’URSS per mascherare la verità, ossia che il capitalismo ha anch’esso le gambe molto, molto corte ed inciampa oramai ad ogni piè sospinto: in definitiva, anche un greco od un romano vi avrebbero riso in faccia se aveste proposto l’abolizione della schiavitù.

Nei prossimi mesi, quindi, attendiamoci grandi sorrisi e profonde “aperture” nei confronti della nuova classe politica americana –, mi creda, contessa, così diversa dal quel bifolco vestito a festa di Bush… – e già si preparano grandi festeggiamenti per le nuove aperture “democratiche”, da una sponda all’altra dell’Atlantico.
Il nuovo progetto non si chiamerà più “Nuovo Medio Oriente” bensì “riappacificazione” del Medio Oriente o qualcosa di simile: e chi non ci starà? Beh…per chi è proprio “contro la pace”…anche una guerra – piccina, per carità, insignificante – è giustificata…

Mio Dio, che puzzo di morte si respira nei proclami dei pacifisti professanti della politica nostrana, quale inganno mortifero si nasconde dietro alle nuove, grandi “volontà di pace”! E’ proprio vero che la via dell’Inferno è lastricata di buone intenzioni.

Carlo Bertani bertani137@libero.it www.carlobertani.it

 
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